Gomòria è un romanzo gotico pubblicato per la prima volta nel 1921, illustrato dallo stesso De’ Medici. La storia ruota attorno alle vicende di Gaetano Trevi che perde tutto per una scommessa di gioco. Dovrà ritirarsi in un misterioso castello di famiglia. Lungo la strada incontrerà una presenza femminile che diventerà determinante nel corso del romanzo.
L’opera di De’ Medici trova nuova vita nella collana Fantastica di Cliquot dedicata alla riscoperta delle opere dell’immaginario perse nei meandri tipografici.
Qui trovate un estratto del primo capitolo, mentre su Paper Moon potete leggere la postfazione di Guido Andrea Pautasso.
Gaetano Trevi era sprofondato in una ampia poltrona e fissava la vecchia pendola del caminetto che batteva la quarta ora di notte. Fuori, sulla città addormentata, sul parco cupo e misterioso, sulla grande casa: il silenzio greve appena interrotto dal lamentevole flautare d’un vento autunnale che si stiracchiava per il cielo.
Diluitosi per l’aria l’ultimo rintocco, Gaetano Trevi allungò la mano verso un roseo satsuma dal quale prese un pizzico di biondissimo dubek: e con le dita esili, religiosamente, da raffinato buongustaio, si torse una sigaretta. Poi si alzò e, passando vicino al doppiere d’argento che ardeva in permanenza al fianco del divano, l’accese traendone una boccata di fumo odoroso, azzurro come le vene di una regina.
Gaetano Trevi amava la notte e si compiaceva di passeggiare per la sua gran casa principesca, solo, nel silenzio che facilitava i sogni, quando tutto dormiva: la città verso il mare, le ville sulla collina, il suo giardino orientale e la sua gente, spersa quasi nell’immenso palazzo.
Con l’amorevolezza di un amico premuroso, si fermava di tratto in tratto davanti a qualche oggetto caro per ammirarlo, scrutarlo, correggerne la posizione, forzandosi a scoprirne nuovi effetti e nuove bellezze.
Il salotto dove egli stava abitualmente era una vasta camera tutta tappezzata di damasco verde: d’un verde pastoso fra il nilo e lo smeraldo chiaro; sul quale leggerissimi disegni di un verde azzurrognolo da lapislazzuli si fondevano in una sfumatura.
Il soffitto a cassettoni, dalle vecchie travature dorate ma senza riflessi, era stato lavorato nei vani con musaici di vetro faccettato, verde muschio e azzurro d’oltremare, alternati in un disegno uguale al damasco delle pareti. Attraverso questi quadri luminosi la luce artificiale piombava velata di mistero in un bagliore opalescente. Il salotto non aveva finestre, affinché nessuna luce estranea potesse turbare lo strano luccichio che inondava l’ambiente e accarezzava tutte le cose con dei riflessi cadaverici e freddi, rialzando il pallore dei marmi d’una ombreggiatura di muschio.
Sulle pareti c’erano pochi specchi dalle cornici d’oro arrossato e passito dal tempo: specchi barocchi guarniti con intagli ampollosi e pesanti che piacevano a Gaetano Trevi per l’eccessiva pomposità e perché formavano una cornice regale al suo volto quando degnava mirarsi in uno di essi. Tutto in giro alla camera, allineati su piedestalli di marmo nero andaluso, alcuni meravigliosi nudi marmorei spiccavano bianchi, quasi vivi, nella penombra: una formosa Diana del Blanchard, una ninfa sorridente e sfacciata del Godebski, una angolosa e brutale Salomè del Cordier, una Salambò morbida come il velluto di Jean Idrac, una bagnante del Canova, una colossale baccante di Luigi Morin, che formavano corona a uno squisito androgino di Antonio Rizzo veneziano e a un esile Bacco fanciullo di Jacopo Sansovino.
Alla luce pallida e fosforescente del soffitto a scacchi, sullo sfondo cupo dei damaschi, la carne viva e il marmo vivificato dall’arte perdevano ogni differenza, animandosi entrambi d’una vitalità arcana.
Gaetano Trevi passava ogni sera davanti alle sue statue contemplandole devotamente e accarezzando, con religioso rispetto, una spalla, un ginocchio affusolato, un torso radioso, una mano minuta, e a quella carezza fredda provava un intenso piacere che amava prolungare fino a intiepidire la pietra al suo stesso calore.
In fondo alla sala, racchiusa in una specie di nicchia, una statua strana pareva un corpo vivo immobilizzato nella posa più plastica si potesse creare. Era una Iside, forse una Militta, d’avorio ingiallito e venato nelle screpolature: un nudo perfetto benché magro e nervoso come sono i corpi delle orientali di Siria. Aveva il petto minuto, rigido, dalle mammelle discoste e fiere, il busto arcuato in una posizione irrigidita da idolo, e le gambe nervose, diritte.
Quella statua era di grandezza naturale e aveva la testa inclinata all’indietro, la faccia fiera e un po’ cattiva volta in su, come per sfidare l’invisibile con le pupille fredde che l’ignoto artista si era sbizzarrito di fare incastonando due pallidi zaffiri, color di cielo, sotto alle palpebre d’avorio.
Le braccia, piegate a serpente nel gesto classico delle danzatrici egizie, avevano le mani rovesciate, con tutte le dita aperte. Sull’anulare sinistro, un piccolo cerchio di filigrana d’oro pareva incarnato nella polpa d’avorio indissolubilmente.
Gaetano Trevi aveva fatto nascondere, nella nicchia che ospitava la curiosa statua, un riflettore capace di espandere una intensa luce rosata, il quale, acceso, dava all’avorio la perfetta impressione della vita. Egli si dilettava, ogni tanto, di accendere gradatamente quella lampada, animando la sua Iside dagli occhi azzurri di una vita effimera e fittizia. Quella statua aveva una storia. Egli l’aveva comperata a Bagdad da un mercante indiano che gliel’aveva raccomandata come una creatura, dandogli anche un indecifrabile papiro che ne narrava la fantastica avventura. Gaetano Trevi aveva fatto tradurre i misteriosi geroglifici e amava rievocarli di fronte alla sua statua aureolata di luce arcana, nel silenzio notturno, quando tutto dormiva: la città laggiù verso il mare, il grande parco rigoglioso e la sua gente, sperduta quasi nel gran palazzo:
Anthea si chiama e la fece Lèxilis, il gran mago, molti, molti anni or sono.
Era così bella, e aveva gli occhi tanto smaglianti che il popolo di Benares la volle elevata sopra un piedestallo, nella piazza del mercato, proprio sulla sponda del fiume sacro, affinché si potesse specchiare nell’acqua limpida e perché tutti la potessero vedere.
Ora avvenne, un dì, che un corteo di nozze si fermasse su quella piazza per rifocillarsi e divertirsi.
Gli sposi decisero di salire in una barca per fare una gita sulle acque calme, imporporate dal sole.
Lo sposo, che era un marinaio e si chiamava Nebo, per avere la mano più libera al remo, tolse dal suo dito l’anello nuziale e lo infilò al dito della statua che si indorava nel tramonto.
Al ritorno della gita e mentre il corteo e i parenti e gli amici si avviavano verso la dimora, Nebo tornò solerte alla statua per riprendere il suo anello… ma la mano si era chiusa. Si affannò, strappò, provò di torcere le dita, ma invano, ché impossibile gli fu di tirare dal fragile pugno d’avorio il suo cerchietto d’oro.
Interdetto e intimorito da questo prodigio, non fiatò verbo, né tradì con alcuno la sua emozione: ma quando tutti furono rientrati e fu scesa la notte, egli fuggì di nascosto, correndo al mercato, verso la statua misteriosa, deciso di riprendere il suo anello, a qualunque costo.
Ma la mano era aperta e stesa come prima e l’anello non c’era più!
Tremante e col cuore gonfio di paura e il respiro corto, ritornò al suo tetto e alla sua sposa che lo attendeva meravigliata.
Ma nulla le disse, nemmeno alla famiglia che lo interrogava con lo sguardo. Ora avvenne che, rimasti soli gli sposi, Nebo volle avvicinarsi a sua moglie per abbracciarla.
Inutilmente: un corpo estraneo, rigido e freddo s’intrometteva continuamente fra di loro, e, benché invisibile, diceva: «Che cerchi tu da costei? Sono io che tu devi abbracciare! Io, tua sposa! Io, Anthea, alla quale desti l’anello nunziale! Non è forse vero?».
Il giovane sposo terrorizzato corse da suo padre per chiedere aiuto e consiglio, ma il vecchio genitore, che era uno scettico, al racconto del miracolo rise del suo figliuolo e lo rimandò alla sua donna con amorevole scherno. Nebo, rincorato, volle allora raggiungere sua moglie nel talamo nuziale bianco e con grande gioia si avvicinò a lei… ma, di nuovo, un corpo estraneo e freddo s’intromise fra di loro, due occhi azzurri e lucenti lo fissarono nella penombra e una bocca gelida gli bisbigliò nelle orecchie: «Sono io che tu devi possedere! Io, Anthea, tua sposa!».
Il giovane marinaio urlò dallo spavento e, come un pazzo, fuggì dalla sua casa, correndo attraverso la città sonnecchiante, verso la piazza dove la statua immobile tendeva le mani nude verso il cielo e pareva attendere, con le sue pupille fredde, il bacio freddo della luna.
Ma l’anello non c’era…
Nebo sentì la sua testa ronzare, ebbe le vertigini e cadde ai piedi dell’impassibile Anthea ruzzolando, privo di sensi, nel fiume sacro, silenzioso e calmo.
L’indomani ritrovarono il suo cadavere nella bassa, fra le rocce, e la gente incuriosita dalla macabra istoria che si andava raccontando accorse per vedere la misteriosa statua. Sulla mano sinistra, infilato nell’anulare, un piccolo cerchio di filigrana d’oro pareva incarnato nel muscolo d’avorio, indissolubilmente…
Gaetano Trevi allora, fissava la sua statua lungamente come per leggere, in fondo a quegli occhi di zaffiro, il mistero che vi stava annidato. Poi scrollava la testa mormorando fra i denti: «Ubbie da novellieri!» però spengeva la luce rosa che vivificava troppo quell’avorio, e se ne andava più tranquillo quando, alla carezza verdastra che fluiva dal lucernario, Anthea ripiombava nell’inerzia delle cose morte.
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