Il lurker è un osservatore silenzioso, il tipo di utente che segue e legge una comunità virtuale senza mai intervenire. Rispolverare la teoria dei media digitali, per quanto attendibile, provoca un effetto tra il vintage e l’incomprensione per una trasformazione ancora in atto: da una parte avvertiamo modifiche irreversibili alla comunicazione e all’identità online, per cui etichettare gli utenti aiuta a circoscrivere con azioni e responsabilità lo spazio del web; dall’altra il dubbio è di dover attendere ancora molto per capire la reale portata del mutamento come se stessimo rincorrendo a una Legge di Moore dell’informazione.
Ancora più interessante è aggiungere un’altra variabile ai ruoli virtuali: le tecnologie digitali hanno giovato della democratizzazione della libertà di espressione e della generale sfiducia per il clima politico e per l’informazione professionale. L’accesso allargato e la possibilità di diventare creatori e contributori a basso costo hanno moltiplicato esponenzialmente la quantità di informazioni a disposizione. Se la realtà umana si costruisce in un’ottica soprattutto relazionale, eliminate alcune caratteristiche della comunicazione sincrona sul web, chiunque abbia qualcosa da esprimere per raggiungere un pubblico anche più vasto della cerchia di contatti privati, può farlo. Più il potere dell’identità che l’ha prodotto saprà imporsi, più il contenuto sarà forte, pronto allo scontro nel dibattito online. La scarsità di informazioni ha lasciato il posto a un’abbondanza che spesso dilaga in un marasma di sensazionalismo e di facile manipolazione (dal click bait alle fake news). Una situazione che persino chi è deputato a comprendere e a regolamentare fa fatica a cogliere: la proposta Marattin di qualche tempo fa proponeva che l’apertura di un account virtuale avvenisse solo dopo aver fornito i documenti d’identità, non centrava il punto e cioè che le persone sono disposte a usare anche la vera identità per affermazioni controverse, non documentate, magari provenienti dagli stessi organi d’informazione. La questione non sembra essere la semplice etichetta sociologica della metà degli anni Novanta quanto, come si è detto, il potere comunicato e percepito: una distorsione che fa avvertire un rapporto simmetrico tra noi e qualsiasi ambito dello scibile, tra noi e qualsiasi personalità molto più esperta. Ad aumentare il disorientamento c’è poi la chiusura al confronto per la difesa dello status quo proprio da parte di chi dovrebbe essere sempre pronto a custodire razionalmente e criticamente l’attualità. La lettera degli intellettuali ad Harper’s conteneva una visione poco chiara sullo stato della libertà d’espressione, ancora meno chiara sulle concrete soluzioni volte ad aiutare il dialogo.
Il silenzio del lurker sembra essere spezzato da una sempre maggiore capacità di dirsi contributore a discapito della qualità e dell’attendibilità di quanto sostenuto, per un’ansia spasmodica di una performance autoriferita che vede nella comunicazione l’unica dimostrazione della propria esistenza. La realtà risulta continuamente connessa all’interiorità perché, come ha scritto Claudia Durastanti:
Il decentramento di sé – quella pratica per cui invece di fare sempre mea culpa del proprio privilegio si sta in silenzio e a osservare, lasciando che a condurre la conversazione siano gli altri – viene ancora percepito come una sconfitta, come una perdita e una rinuncia, un darla vinta ai censori.
In un contesto del genere non è un caso che Trick Mirror. Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo, la raccolta di nove saggi scritti da Jia Tolentino e pubblicati da NR Edizioni con la traduzione di Simona Siri, si apra proprio con La i di io in internet, un excursus sulle fasi e i tipi di internauti che hanno caratterizzato il web. La carriera dell’autrice statunitense si è costruita proprio grazie a un abile sfruttamento delle dinamiche che hanno plasmato il mezzo: in pochi anni è passata dalla scrittura sui blog femministi come The Hairpin e Jezebel alla redazione del New Yorker. È stata definita la voce dei millennial e la forma dei personal essay raccolti nel libro permette di identificare tutti gli ingredienti che generano un sentire diffuso, un prodotto del suo tempo, il risultato di un connubio tra il modo di percepire l’identità e il modo di restituirla insieme a una visione velatamente critica della realtà.
Passeremo dal racconto di Tolentino come protagonista di un reality show e della sua immagine autodeformata per l’estetica televisiva (in Io nella reality tv), alla sua esperienza con le droghe ricreative che arrivano a toccare l’estasi religiosa di cui è imbevuta la sua educazione (in E(c)stasi), fino a saggi con un impianto tematico all’apparenza meno personale come Storie di una generazione in sette truffe, casi di studio di millennial che hanno inseguito il sogno dell’autorealizzazione, Noi veniamo dalla vecchia Virginia sugli abusi sessuali nelle università americane, e Il culto della donna difficile che tratta la forzatura della ricerca della versione femminista nella storia delle celebrità.

A meno che non parta dal racconto dell’esperienza diretta l’impianto dei testi è simile: l’esposizione della tesi presa dall’attualità, dalla ricostruzione storica o culturale della vicenda, subisce puntualmente l’incontro con la storia personale dell’autrice. In Ottimizzarsi sempre, il saggio sulla spinta a perseguire la parte migliore di sé che passa per un femminismo mainstream perfettamente inglobato nell’estetica capitalista, entreremo in un periodo di vita della Tolentino che confessa di aver desiderato una disciplina, l’ordine dell’alimentazione e la cura del corpo con la pratica di Barre, un tipo di ginnastica che utilizza elementi del balletto, dello yoga e del pilates.
L’incursione autobiografica fa del personal essay una composizione ibrida tra la finzione dell’autore e la formulazione di un’ipotesi. Il comune denominatore non è imporsi a esempio, ma partire dal basso, avvicinare il lettore con gli elementi famigliari dell’intimità. Procedimenti che la Tolentino dimostra di conoscere bene anche nella sua attività al New Yorker, con articoli come in The Age of Instagram Face, analisi dell’estetica omologante dei filtri Instagram, How Tik Tok Holds Our Attention, un viaggio nel mondo dell’applicazione e di alcuni utenti più attivi, The Pitfalls and The Potential of the New Minimalism, analisi del mantra “vivere con poco” à la Marie Kondo. In The Personal Essay Boom is Over si arrischiava a ipotizzare la morte del personal essay perché la narrazione del sé, in un’epoca che ha fatto della spettacolarizzazione la sua legge, indugia in maniera vuota nel sentimentalismo caricato forzatamente di un significato altro. Una prima persona che invece di passare alla visione panoramica resta in soggettiva: «L’attenzione fluisce naturalmente su ciò che è oltraggioso, straziante, intimo e riconoscibile, e il saggio personale online ha iniziato a indurirsi in una forma definita dall’identità e dalle avversità, non nonostante quanto sia difficile negoziare tali questioni di fronte a un folla ma proprio per questo fatto». È una consapevolezza che apre Trick Mirror, con una confessione che sarà un’ammissione quasi ingenua del tono di voce che s’imporrà durante la lettura:
Gli ultimi anni mi hanno insegnato a sospendere il desiderio di una conclusione, a supporre che nulla sia immutabile e che rimettere qualcosa in discussione sarà un processo infinito, nella speranza che piccole verità continuino a emergere nel tempo.
Gli scritti di Tolentino si collocano nella zona grigia che riconosciamo in ogni volto televisivo, opinionista o sedicente politico: sono contaminati dalla consapevolezza di non riuscire a dare una risposta definitiva e a restituirci uno schieramento morale totalizzante, si prestano alla revisione e alla transitorietà degli eventi prendendosi il rischio di essere ritrattati a fronte di altre verità non assolute. Un rischio che è molto alto quando si mette in gioco l’interiorità, il luogo privilegiato delle contraddizioni vittime del cambiamento del tempo.
«Noi ci raccontiamo delle storie per vivere» scriveva Joan Didion in The White Album, esempio illustre di come l’equilibrio di sguardo ed esperienza personale diventino testimoni di eventi chiave degli anni Sessanta, per poi passare anche alla costruzione di una mitologia americana nella commistione di luoghi e origini con Da dove vengo. La scrittura di Jia Tolentino sembra inaugurare un nuovo corso del saggio personale rispetto ad altri predecessori come Sontag, Weil e Arendt, perché conduce nella caoticità della realtà mettendo a fuoco il sé e sgranando lo sfondo: il lurker inizia a evocare la propria realtà come una bussola per orientarsi. Se «il centro non reggerà» perché vittima di una casualità sconosciuta all’uomo, la soluzione dell’autrice è diventare il suo stesso personaggio. In Io temo te, per esempio, il matrimonio, sviscerato sin dalle origini, si arena nel quadro di una coppia eterosessuale, monogama, tutto sommato felice. Il pregio di una scrittura a tratti umorale, ma calibratissima nel sapersi raccontare, è la vicinanza percepita: Jia Tolentino è una dei “colpevoli”, è perfettamente inserita nelle dinamiche capitalistiche, non ha problemi ad ammetterlo e altrettanto abilmente ne svela le illusioni che abbiamo accolto da molto tempo. Il patto con il lettore sembra subdolo – attirare nell’attualità con un racconto che costituisce un’altra finzione – ma è proprio quello che richiediamo al mondo intellettuale spesso arroccato in rigidi formalismi. Le preoccupazioni di David Foster Wallace per una televisione in grado di inglobare le spinte a lei opposte oggi ci appaiono anacronistiche, perché i confini di ogni ambito del vivere si scontrano con la molteplicità di racconti già vissuti e codificati, ampiamente diffusi dallo stesso sistema che promettevano di denunciare.
Quello di Jia Tolentino potrebbe essere un invito molto pericoloso – far uscire il lurker dal silenzio per esplodere in tutto il suo egocentrismo – ma sarebbe utile a fare ordine nel caos: ammettere di essere coinvolti nel sistema ed essere più consapevoli del bisogno di conoscerlo e sviscerarlo criticamente. Continueremo a raccontarcele, ma almeno sarà una scelta consapevole.
Jia Tolentino
Trick Mirror. Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo
Traduzione di Simona Siri
NR Edizioni
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