«Non sono solo una donna nera che ha vinto il Booker Prize e che ha scritto un libro con un solo personaggio britannico nero. Questo libro parla proprio di donne nere, di 12 donne nere.» In effetti l’affermazione di Bernardine Evaristo non è così scontata a un primo ascolto. L’eccezionalità di Ragazza, donna, altro, pubblicato da Sur con la traduzione di Martina Testa, non sta solo nella sua autrice, prima donna nera a vincere il Man Booker Prize (nel 2019, a pari merito con Margaret Atwood), ma anche in una forma stilistica e tematica in grado di restituire una contemporaneità multiforme e mai scontata.
È difficile destreggiarsi nella narrativa degli ultimi anni per ricercare un “romanzo rappresentativo”, quello che racconterà “il nostro tempo”, al di fuori del mero schieramento morale davanti ai cambiamenti degli ultimi decenni; difficile è anche allontanarsi dal romanzo borghese caratterizzato da un personaggio, un modo di costruirlo e di pensarlo nella sua intimità. Ragazza, donna, altro, invece, rompe gli schemi presentando un flusso continuo e sfaccettato d’identità e idee.
Inizieremo il cammino con Amma, alle spalle una carriera da attivista femminista e drammaturga che dopo anni di lotte riesce a conquistare un posto di tutto rispetto nell’establishment artistico che l’aveva esclusa. Sarà proprio lei a fungere da punto d’incontro delle altre undici storie e a scaturire la domanda iniziale: è possibile trovare un equilibrio tra il privilegio conquistato, ricco di contraddizioni, ipocrisie borghesi e regole capitalistiche, e gli obiettivi dell’attivismo?
nessuno raccontava a gran voce di non essere mai andato in vacanza in vita sua, neanche una volta
nessuno raccontava a gran voce di non aver mai preso un aereo, visto uno spettacolo a teatro o il mare, o mangiato in un ristorante, di quelli coi camerieri
nessuno raccontava a gran voce di sentirsi troppo bruttoscemograssopovero o semplicemente fuori luogo, fuori contesto, un pesce fuor d’acqua
nessuno raccontava a gran voce di aver subito uno stupro di gruppo a tredici anni e mezzo
C’è chi come Carole, cresciuta tra i caseggiati popolari, maschera le origini nigeriane per conquistare una carriera di successo, a tratti tormentata dal pensiero del giudizio altrui e da un terribile trauma mai del tutto sbiadito. La madre di Carole, Bummi, vivrà sempre un sentimento di rivalsa legato alle origini in Nigeria. In Inghilterra la sua laurea non ha valore e l’unica soluzione è reinventarsi per sopravvivere, senza mai nascondere l’intolleranza per le usanze occidentali. E poi c’è Megan che indagherà l’identità di genere con l’ingenuità del neofita, fino a proclamarsi non binary e a preferire il nome di Morgan. Yazz, la figlia di Amma, conosce l’identità poliamorosa della madre, ma afferma che «in futuro saremo tutti non binary, né maschi, né femmine, tanto i ruoli di genere sono solo performance». Con le sue amiche bianche, nere, musulmane, coltiva consapevolezza sessuale e culturale rifacendosi a opere femministe del passato (come Simone de Beauvoir, Judith Butler, Angela Davis) e alle icone attiviste del suo presente.
Sono solo alcune delle voci di un romanzo corale che a uno sguardo superficiale mostra le conseguenze della gentrificazione e della multiculturalità della Gran Bretagna. Andando in profondità si nota come il riferimento alle origini africane o afro-caraibiche inaugura sempre un dibattito, personale e politico, che coinvolge, in modi più o meno approfonditi, la classe sociale e l’identità sessuale. Oltre a raccontare la metamorfosi urbana e rurale che instaura un rapporto molto stretto con la psiche dell’emarginato, Bernardine Evaristo evidenzia come le differenze di classe influenzino ancora il sentire soggettivo e come questo, a sua volta, sia vittima del vaglio della società. Prendiamo Winsome, protagonista di una delle 12 storie: ha quasi settant’anni, è abituata a vedersi in un corpo abbondante e poco erotico, lontano da ogni riferimento sessuale della società che la circonda, eppure riscoprirà una sessualità mai provata in tutta la sua vita.
A favorire un continuo scambio tra le diverse storie è la fusion fiction che l’autrice definisce come una prosa visivamente simile alla poesia: il movimento sinuoso del testo sulla pagina e l’assenza di punteggiatura favoriscono una lettura dentro e fuori la storia. Il punto fermo avrebbe decretato la fine della vicenda (la morte ipotetica di un personaggio), mentre la sua mancanza crea la percezione di un unico e metodico ricamo. Ogni istantanea di vita proseguirà anche senza lo sguardo del lettore che brama un finale: spesso, dopo una conclusione in sospeso si è catapultati nel bel mezzo di un’altra identità. Diverse età, diverse epoche (dall’inizio del Novecento alla Brexit), vicende parallele e sovrapposte chiedono al lettore di non banalizzare l’esperienza altrui, ma di forzare ulteriormente un percepire empatico anche se molto lontano dalla propria storia. In anni dove tutto è ricondotto a una reazione “di pancia”, al far sentire la propria voce imponendosi con forza, la scelta stilistica di Evaristo ricorda che neanche il tempo della lettura, come quella di uno sguardo fugace, è in grado di definire appieno un’altra interiorità.