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Paul Auster e la New York per uno specchio delle identità

Geografie letterarie viaggia tra i rapporti di influenza che spesso s’instaurano non solo tra autore e opera ma anche tra autore e luogo in cui vive. 

 

Se c’è una cosa di cui sono sicura è che New York esiste, tutto sta nel decidere che cosa s’intende con “esistere”.

New York è la sagoma adagiata sul continente e sulla foce del fiume Hudson, sembra incredibile come una striscia di terra riesca a sostenere grattacieli che svettano come denti e che, in prospettiva, formano gradini di scale verso il cielo. Osservandola meglio la metropoli è anche il suo spettro simmetrico che si specchia nell’acqua, come a dire che la città in superficie è molto diversa da quello che è nel profondo.

New York è la presenza costante in Trilogia di New York, l’unica protagonista che non viene stravolta dal vortice d’identità che si troveranno a percorrerla.

In Città di vetro Quinn è William Wilson, lo pseudonimo con cui scrive i suoi romanzi, ma è anche Max Work, il detective protagonista dei suoi scritti. Sin dall’inizio sceglierà di diventare anche l’investigatore privato Paul Auster, rispondendo a una chiamata non destinata a lui. Dovrà indagare su un padre uscito di galera che, in passato, accecato dal fanatismo religioso, ha creduto di creare la nuova lingua dell’uomo costringendo il figlioletto all’isolamento.

Un ombrello può ancora definirsi tale se è rotto? L’essere un ombrello implica un significato diverso rispetto a un ombrello rotto. La ricerca di Paul Auster parte dallo strumento basilare degli scrittori, il senso delle parole, e lo fa costruendo un labirinto tra realtà e finzione.

Paul scrive di Quinn che, a sua volta, scrive le avventure di un altro investigatore. Quinn diventa l’investigatore Paul Auster, che noi conosciamo come lo scrittore che apparirà in un capitolo del romanzo stesso. In un gioco continuo di rimandi, i significati di scrittore e personaggio vengono stravolti.

Lo scrittore conosce i suoi personaggi, diventa un’entità trasparente che si lascia attraversare; i personaggi diventano l’autore e ne assumono l’identità per portare avanti la storia.

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© Kathleen Dolmatch

Sullo sfondo, come ho detto, c’è New York, città dello smarrimento universale, «un’immensa Babele» dirà lo stesso Auster in un’intervista, dove lingue e diversità coesistono. Come osserverà Quinn in Città di vetro tracciando l’origine e la fine di molte vite:

Ma accattoni e artisti di strada non rappresentano che una piccola parte della popolazione girovaga. Sono l’aristocrazia d’élite dei falliti. Molto più numerosi sono quelli senza niente da fare né un posto dove andare. Molti sono ubriaconi…ma questo termine non rende giustizia alla devastazione da loro incarnata. Carcasse di disperazione avvolte in stracci, le facce contuse e sanguinanti, arrancano per via come in catene. Assopiti nei portoni, follemente barcollanti nel traffico, stramazzanti sui marciapiedi, nel momento in cui li cerchi sembrano essere dappertutto. Alcuni moriranno di fame, altri di caldo o freddo, altri ancora verranno picchiati o bruciati o torturati. […]

Baudelaire: Il me semble que je serais toujours bien là où je ne suis pas. In altre parole: Mi pare che sarò sempre felice dove non sono. Ovvero, semplificando: Ovunque non mi trovo, là è il luogo dove sono me stesso. O se vogliamo prendere il toro per le corna: Dovunque fuori dal mondo.

(Paul Auster, Città di vetro, traduzione di Massimo Bocchiola, Einaudi, pp. 114-115)

Appresa la relatività di ruoli come autore e protagonisti, in Fantasmi, il secondo capitolo della trilogia, la vicenda si astrae fino a personaggi che prendono il nome di colori.

Blue è incaricato da White di spiare Black. Come del primo romanzo, l’investigazione procede tra appostamenti e incontri, durante i quali la spia e lo spiato arriveranno a sovrapporsi come un’orma con il piede che l’ha generata.

Blue e Black, due nomi diversi, due colori diversi, due entità che ripetono le azioni giorno per giorno. Leggendo Paul Auster è come se la sensazione del doppio venisse impersonata e non soltanto provata dal lettore, con la vicenda che passa in secondo piano nonostante la cura con cui è stata definita.

La consapevolezza di Blue di essere osservato, l’essere privo di libertà come se seguisse l’andamento di un romanzo, diventa la consapevolezza del lettore di essere la spia e la narrazione si allontana dalla sua definizione proprio come l’ombrello rotto in precedenza: parla di finzione, la usa, ma prende le distanze come se tendesse alla realtà grazie anche agli interventi esterni (un altro scrittore-personaggio?) che concludono Città di vetro e Fantasmi.

In un dialogo Blue ammetterà che ogni uomo ha il suo doppio e il suo potrebbe essere morto. Un fantasma, appunto, che, se vorrà, potrà prendere il suo posto. Black rincarerà la dose pensando al ruolo dello scrittore che non ha vita propria. Dubbio che conduce a La stanza chiusa, ultimo libro della trilogia.

Dopo un romanzo poliziesco e uno psicologico, si torna alla narrativa classica: nel tentativo di comprendere la scomparsa del migliore amico Fanshawe, il protagonista ripercorre le tappe dell’infanzia trascorsa insieme. Incaricato di pubblicare le opere postume di Fanshawe, di fatto ne prenderà il posto, sposandone la moglie e avendo un figlio da lei. Soffrirà dei ricordi di una vita passata all’ombra dell’amico, verrà persino scambiato per l’autore che si nasconde dietro le opere pubblicate e, infine, penserà di mettersi a scrivere.

Fanshawe, fin da piccolo, è «più autenticamente se stesso di quanto io possa sperare». La scelta dell’identità durante la crescita è una verità implicita ma fondamentale per quello che sarà l’individuo futuro.

Se Città di vetro ha iniziato il dibattito su cosa significhi identità, Fantasmi ha proseguito in quella direzione, con una storia simile, ma orientata alla relatività dei ruoli di scrittore e personaggio, La stanza chiusa chiude con un finale degno di una domanda senza risposta: è possibile fuggire dalla propria identità anche volontariamente?

51gge6FHCLL._SX322_BO1,204,203,200_Autore: Paul Auster

Traduzione: Massimo Bocchiola

Editore: Einaudi

Anno: 2013

Pagine: 316

Prezzo (cartaceo): € 12,50

Prezzo (ebook): € 6,99

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Il fumetto – Il problema è la storia in sé…e se abbia senso o no, non spetta a noi dirlo.

L’idea di un fumetto tratto dall’opera di Paul Auster sembra un controsenso. L’essere così ancorata all’importanza della parola, al suo effetto sull’identità, rende l’opera qualcosa lontana da una narrazione fatta di immagini.

Sotto lo sguardo incerto di Art Spiegelman il mondo del fumetto negli anni Ottanta aveva trovato una nuova definizione per collocare Maus, la sua opera più celebre: graphic novel, il “romanzo grafico”.

Siccome la “grafica” era rispettabile e il romanzo era rispettabile (anche se è sempre stato così), sicuramente “romanzo grafico” sarebbe stato doppiamente rispettabile.

(Auster, Karasik, Mazzucchelli, Città di vetro, traduzione di Carlo Oliva, Omar Martini, Coconino Press, p. 30)

20160413_220956Spiegelman voleva dare un senso a una forma di narrazione così nobilitata, e iniziò a coinvolgere molti amici scrittori (John Updike era tra questi, lui stesso in origine voleva fare il fumettista). Dopo alcuni rifiuti, nacque il progetto Neon Lit: il proposito non era aumentare la quantità di carta e inutili pubblicazioni di libri esistenti, ma trasporre e trasformare opere di letteratura in opere visuali degne di costituire opera a sé.

Paul Karasik e David Mazzucchelli si dedicarono alla realizzazione di Città di vetro.

Osservare la pagina, spesso una griglia a 9 vignette, è come trovarsi davanti a un grattacielo. Ogni vignetta è una finestra e ogni finestra vede articolarsi le vicende del primo romanzo in una carrellata di immagini che rimandano ad altro.

Città di vetro all’inizio sembra impossibile da adattare perché riguarda in larghissima parte la natura del linguaggio. L’argomento del libro è il testo stesso, e la scrittura che sostiene quel tema è presente e precisa.

(Auster, Karasik, Mazzucchelli, Città di vetro, traduzione di Carlo Oliva, Omar Martini, Coconino Press, p. 16)

Diventa tutto come guardare un’opera di Escher senza aver chiaro di quale sia il labirinto: durante il monologo di Peter Stillman Caronte emerge dalle acque, ci avviciniamo a una pittura rupestre, poi a un tombino, un grammofono, tutti oggetti dai quali viene la parola.

La fedeltà al testo originale è impressionante, frutto di un calcolo matematico di Karasik, volto a non scomporne il ritmo. L’esperimento è riuscito, anche perché da quel territorio incerto che era la parola, le immagini riescono a estrapolare un immaginario tangibile per il lettore. L’espansione di significato, la relatività della parola di Auster, era così sfuggente da poter essere identificata con una qualsiasi immagine inserita in una struttura ben ponderata del fumetto.

Perché alla fine è così che si deve prendere Auster, un paradosso riconducibile a immagini familiari e, forse, a un’identità che ci calzi a pennello.

copAutore: Paul Auster, Paul Karasik, David Mazzucchelli

Editore: Coconino Press

Anno: 2011

Pagine: 174

Prezzo (cartaceo): € 22

Acquista su Amazon

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  1. […] a viverla: tra i valori che l’hanno creata e quelli che la modellano continuamente. Mentre un gioco d’identità si trova a percorrerla, confondendosi tra autore e protagonista, ce n’è un altro fatto di […]

  2. […] 1.1, 1.2, 1.3 e 1.4). L’identità, tema chiave della poetica di Auster (basti pensare a Trilogia di New York), si mescola alle infinite chance perse e colte nel corso di una vita per dare risultati sempre […]

  3. […] York e per non dover cercare di catturare un suo ritratto. Paul Auster l’ha definita un’immensa Babele, Truman Capote ha scritto di non poter ricordare un castello incantato, una fantasia difficile da […]

  4. […] dell’identità. E Paul Auster è il cantore della sua città, lo ricordiamo bene per la Trilogia di New York: una formula tripartita che indagava dapprima l’accettazione di un’identità multipla, […]

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