Non c’è dubbio nel dire che l’orrore, più di altre narrazioni, trova nella sublimazione il motore delle proprie storie. La vitalità del mondo interiore di Lovecraft lo portò a popolare il buio con esperienze reimmaginate o creature espressione della piccolezza umana e della sconfinatezza della conoscenza oscura. La logica interiore di Poe gli faceva perseguire la bellezza attraverso un equilibrio incredibile delle atmosfere nelle sue storie.
Per Orazio Labbate e il suo Stelle Ossee (Liberaria, 2017) la sublimazione compone i racconti attraverso due livelli: uno atavico, che la ritrae nel momento in cui viene concepita; un secondo livello, invece, si fa veicolo di una poetica ben precisa. L’ispirazione è il sentimento embrionale che spinge alla scrittura ed è simile all’inconscio e, quindi, concepito come uno spazio onirico, in cui il tempo è libero di allargarsi e diventare il suo contrario. Lo dimostrano i racconti percorsi da atemporalità come La lavanderia slava, un’incursione notturna in una macelleria e il dialogo, isolato da corpi e azioni, tra il protagonista e la proprietaria della lavanderia:
«Credi che Dio abbia ceduto la notte per l’addormentamento? O per anticipare ciò che significa morire?»
«Dio non esiste e la notte non è un negozio mortuario. Questo è buio. Ho questa maglietta e questo cane e davanti ad una lavanderia. So questo. Conosco questo.»
(da La lavanderia slava, Orazio Labbate, Stelle Ossee, Liberaria, 2017, p. 35)
In altri racconti il dialogo onirico cerca di avvicinare la dimensione dei morti e di renderla familiare insieme a un mondo materiale e fenomenico. La mancanza dei cari è il filo che lega alcuni racconti della raccolta, ma è una realtà destinata a rimanere ignota ed è ricostruita con fascino contemplativo. In Buio sotto il letto un uomo trascorre l’intera notte sotto il proprio giaciglio dialogando con i fuochi fatui, forse allucinatori, degli affetti defunti; in Luce accesa il buio temporaneo della stanza è un modo per avvicinarsi alle «lontane carezze dei morti». Lo spontaneo abbandonarsi rende le storie di Labbate diverse dal tipico orrore: se in alcune si rintraccia l’ispirazione che si esaurisce in poche pagine, senza una vera e propria storia, è perché l’orrore non è spavento ma contemplazione estatica, quasi un eco lovecraftiano – e, più recente, ligottiano – di storie con una trama libera dalla causalità e più legata all’osservazione delle forze che regolano l’oscurità.
Qui arriviamo al secondo livello di scrittura a cui accennavo. Ho parlato di poetica riferendomi a un’idea precisa delle forme e del genere dell’orrore che Labbate persegue attraverso alcuni accorgimenti di stile. La lingua restituisce spesso la spigolosità della materia e fa da mediatrice al carattere aleatorio delle parole appena pronunciate e il significato a cui si riferiscono. Alcuni esempi:
Non vedo più il cielo. Il Paratico è intrappolato in questa panchina davanti al cimitero di Corsico. Sono uno straniero che prega un lampione spento. Vi è un odore umido, di erba. La mia mano sfuocata nella luce socchiusa della notte si infiltra tra le fessure del buio. Una croce pietrosa migra sulla luna remando nel silenzio. […]
La distanza ingravida la sofferenza: stelle, sole, universo, nero, buchi, colori sfusi.
(da Il cimitero e il coniglio, p. 26)
Le case lontane martoriavano il silenzio ragliando grazie allo scirocco invernale che le addormentava.
(da Il santino buio, p. 71)
Vedo i cani accogliere in gola le stelle. Quegli animali mantengono le fauci aperte verso l’altro, come se fossero porte trascinate dal vento che però mai si richiuderanno.
(da La notte della pianura, p. 76)
La scrittura si riferisce alle cose ultraterrene attraverso la materialità del mondo. Spesso, è proprio quest’ultima a incontrare una religione senza padri, come in Case infestate dove i protagonisti inaugurano una ricerca (e una distruzione) terrena per appropriarsi di nozioni mai veramente digerite. In Madonna verde le vicissitudini di un emigrato buterese negli Stati Uniti richiamano la scissione tra passato/origini e futuro/nuova religione. Ironicamente Vincenzo si troverà ad assumere il nomignolo di Vinny Butera come a essere una nuova incarnazione della storia siciliana.
Il suo nuovo nome di battesimo, un battesimo americano senza acqua santa, senza testa bagnata, senza il prete o la croce ignuda a guardare lo scioglimento del peccato, senza il nervo del padre che gli lasciava scaglie di sangue giallastro sulla schiena.
Lo benediceva la Madonna verde, con il suo fuoco bianco che, a gocce linguate, scendeva dall’etere spremendo la pioggia di Nuova York sul bernoccolo del cranio, siciliano, incavo di Vincenzo.
(da Madonna verde, Orazio Labbate, Stelle Ossee, Liberaria, 2017)
Per i motivi elencati la scrittura di Orazio Labbate suscita curiosità. Anche per quello che è stato Lo Scuru (pubblicato con Tunué) in cui, forse più di Stelle Ossee, l’identità siciliana mista al dialetto non si chiudeva nei confini regionali, ma spaziava tra la particolarità dell’esperienza e l’universalità dell’orrore. Labbate non ha mai fatto mistero del fascino per il southern gothic, Flannery O’Connor, William Faulkner, e neanche del suo legame a scrittori della sua terra, come Gesualdo Bufalino, eppure le sue composizioni non vogliono essere vuota imitazione, ma un’unione tra la metafisica dell’immaginario personale fatto di paesaggi, motivi religiosi, e un immaginario letterario e mitico.
Titolo: Stelle Ossee
Autore: Orazio Labbate
Editore: Liberaria
Anno: 2017
Pagine: 110
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[…] ligottiano) e la contemporaneità dell’abisso attraversato dai suoi personaggi. Per Stelle ossee notavo che non c’è volontà di emulazione sterile ma di un saggia comunione tra un […]