«Noi ci raccontiamo delle storie per vivere.»
«La narrativa parla proprio di cosa significa essere un fottuto essere umano.»
Ho sempre diffidato dell’aura epigrammatica delle citazioni: non sono risposte a domande specifiche, assomigliano a modi di dire, “capita a tutti”, “così è la vita”. Smorzare un dialogo in questo modo è come prendere in prestito un’esperienza.
Confesso, però, di aver preso per oro colato le citazioni di Joan Didion e David Foster Wallace. Mi ripetevo che fidarsi delle narrazioni era buono e giusto. Cercavo un balsamo al tratto egoistico che vedeva nelle storie un modo per dipendere dalla loro coerenza: se tutto era in ordine (o tornava in ordine) per quelle vite scritte allora potevo utilizzarle come una cartina di tornasole per la realtà.
Così, nel tempo si è creato un mondo diviso in due sfumature incuneate l’una nell’altra: da un lato la fede nell’unicità delle storie e il fascino per la singolarità di ogni esperienza umana, dall’altro il potere schiacciante dei cliché, di gran lunga più diffusi, casuali, duri da digerire, più spesso rifugio e consolazione dall’ignoto. In poche parole mi rendevo conto che la Didion giudicava ingenuo fidarsi delle storie per non affrontare la vita in tutta la sua insensatezza, mentre avvertivo i confini di quel “fottuto” di Wallace come un invito a rivolgere lo sguardo ad altro da me.
Tutte riflessioni arrivate in un momento storico particolare, in un mondo iperconnesso dove si confrontano la velocità di costruzione e di continua ritrattazione dell’io e l’abilità di raccontarlo e di rappresentarlo. Ogni vetrina sociale ha potenzialità narrative differenti, ma è emblematico che la società della performance viva un presente infinito senza la possibilità di «percepire la propria persona e la realtà come due entità separate». Il risultato sono nervi scoperti costantemente sollecitati da stimoli diversi per una bulimia informativa ancorata al qui e ora, senza alcuna capacità immaginativa per il futuro.
E, come un cambiamento che permea ogni aspetto del presente, è interessante seguire la linea sottile che divide la finzione dall’autobiografia in letteratura, nell’autofiction in particolare. Complici del dibattito sono molte delle pubblicazioni degli ultimi anni che hanno presentato un ventaglio di possibilità nuovo e infinito per l’autorappresentazione, il gioco metaletterario, la presa di coscienza dell’esperienza distorta dal sentimento. Pensiamo, per esempio, ai diversi modi di coniugare una vita essendo al centro e contemporaneamente ai margini tra finzione e veridicità nelle opere di Carrère; alla progressiva sparizione del protagonista in Rachel Cusk, slegato da ogni espressione che ne potrebbe inquadrare le caratteristiche; al doppio filo della coscienza storica e autobiografica in Annie Ernaux.
C’è chi apprezza la capacità di frugare nella mondanità quotidiana e, quindi, di sviscerare momenti troppo veloci per essere vissuti e compresi. C’è anche chi si chiede se i romanzi che leggiamo non siano intrappolati nel presente. La domanda provocatoria del New Yorker è «Come si scrive un romanzo che non diventi stantio alle prossime elezioni?», ironizzando su come chi scrive sia più orientato a rappresentare la realtà piuttosto che «rispondere ad essa, criticarla o impegnarsi. La rappresentazione – e la sua attraente controparte, la relatività – sono celebrate come conquiste piuttosto che riconosciute come la linea di base da cui un romanziere dovrebbe iniziare il suo lavoro».
A voler individuare le radici più forti ed elegantemente rappresentative dell’autofiction non esito a chiamare in causa Elizabeth Hardwick con il suo Notti Insonni, originariamente pubblicato nel 1979 e portato in Italia da Blackie Edizioni con la traduzione di Claudia Durastanti.
La definizione di romanzo sarebbe riduttiva per un’opera che attraversa il memoir, il monologo interiore, un insieme di appunti da un taccuino personale dei sogni. Il sospetto scaturito dal trucco di attirare il lettore con fatti reali e identificabili è annullato dalla spontaneità con cui l’autobiografia si alterna alla narrazione senza i riflettori del protagonismo.


Nei dieci capitoli, apparentemente slegati tra loro, gli occhi della Hardwick vagheranno tra luoghi, anni e persone senza le tracce di un filo cronologico ben preciso. Ogni logica narrativa è abbandonata per fare spazio a un incontro onirico in negativo: la nebbia del sonno notturno si dirada grazie a una cesellatura linguistica originale e incessante. I senza volto protagonisti dei sogni assumono all’improvviso contorni concreti, fatti di accostamenti ossimorici.
Così leggeremo di uomini in «abiti chiassosi, sotto la luna calante della loro ubriachezza», ci addentreremo in una stanza dell’Hotel Schuyler in cui l’autrice convive con un giovane omosessuale del Kentucky dall’amicizia violenta, ossessiva, gelosa e crudele come una qualsiasi coppia. Noteremo un sintomo inevitabile della lontananza «genetica» tra uomini e donne nelle «incrostazioni grammaticali», «le proposizioni alla deriva» di Alex, un amante bellissimo intriso di rimpianto, dolcezza e umorismo.
Più che i volti anonimi degli uomini, a travolgerci saranno la forza assordante e il silenzio eloquente dei destini delle donne: Judith, per esempio, ha «una certa radianza felice nelle sue pessime scelte», ha un dottorato, si fa prendere da una valanga di parole per raccontare del figlio e di un marito che forse è in Florida (ma chi può dirlo); l’insegnante di musica, Miss Cramer, anche in vecchiaia e in povertà ci tiene a conservare un’apparenza superba; il ricordo di una madre dalla femminilità «mareale» la cui assertività «era semplicemente la vecchia accettazione delle cose della vita». Fino ad arrivare al ritratto meticoloso di Billie Holiday, un’individualità costretta tra un’autenticità spietata e gli istanti in cui «scoppiava uno stereotipo che stava appeso lì come una nuvoletta sulla testa di un’eroina da fumetto».
È proprio la capacità di essere dentro e fuori del tempo a configurare tutto come un sogno premonitore. La lungimiranza permane anche quando l’esito della vicenda di un personaggio è incerto. Per la Hardwick tutti ce l’hanno fatta, in un modo o nell’altro, persino quando sono immersi nelle loro contraddizioni che solo il senso del presente rende un’impasse.
Tutte le storie confermano che ogni unicità ha contribuito a plasmare, di riflesso, una personalità attenta e tanto acuta da fare del sé un potente unificatore di destini frammentati, una sensazione molto simile all’istinto di costituire una famiglia lontano dall’obbligo dei legami di sangue. Non è un caso che Elizabeth Hardwick abbia scritto che «l’onta del posto resta appena non come un diritto di nascita, ma come una specie di artificio, un po’ di belletto», perché ha lo sguardo di chi accetta l’adozione di una città recalcitrante, lontana dalle origini, che la invita a saggiarne monumenti fisici e sentimentali prima che quel senso d’instabilità si guadagni il nome di casa.
La Hardwick era nata in Kentucky ma è l’incontro con New York, quand’era giovanissima, a svelarle i tratti fascinosi della decadenza ricoperta da una patina di sogni e opportunità:
Vivevamo lì nel centro di Manhattan, disdegnando gli up e i down, in qualche modo convinti che la posizione stessa dell’albergo fosse una forma di beneficenza irresistibile. Nessuna stella da avvistare lassù, ma il cielo era sempre sfavillante con lo sfolgorio di luci lontane. Non si vedevano alberi, ma come per miracolo mucchietti di ramoscelli e di foglie spezzate si accumulavano nelle grondaie. Vivere nella giungla che si oscurava nel mezzo delle cose: vicini a cosa?
Viaggerà e citerà tante altre città del mondo ma gli incontri fortuiti, le nottate scomposte, la consapevolezza collettiva e inconscia di vivere un’allucinazione del cuore, la rapisce tanto da rendere la Grande Mela il punto di osservazione privilegiato. È qui che con un gruppo di intellettuali fonderà The New York Review of Books nel 1963 e coltiverà senza sosta spirito critico e sensibilità letteraria.
«Non avrei potuto scrivere il libro senza usare il mio nome. Volevo essere libera di riflettere, di vedere nella mia lingua, senza travestimenti» ha detto Elizabeth Hardwick della sua opera ed è curioso che la forma più alta di libertà sia scrivere dell’io, molto spesso spazio angusto pieno di limiti. D’altronde la stessa autrice, in un saggio del 1977 su The New York Review of Books, intitolato “The Sense of the Present”, osservava la scomparsa nella colpa dalla vita contemporanea e l’incombere della paranoia, giudicata un semplice espediente privo di significato.
A distanza di anni è arrivato il momento di chiedersi se la consapevolezza del sé ha occupato un posto immeritatamente privilegiato nella fiction, portando con sé la trappola della riflessività: notare il senso di colpa, i propri peccati e costruire una trama imperniata su di essi non rende gli scrittori meno innocenti perché l’autocoscienza diventa un punto di arrivo e non un effettivo momento di riflessione per andare oltre.
C’è da chiedersi quindi se la rabdomantica ricerca di autenticità non sia cascata in un trucco estetico, un ulteriore palcoscenico in cui andare alla ricerca del modo migliore per rappresentare, prima che vivere, quello che accade.
Tutto nasce dalla convinzione che nella narrativa il racconto deve essere unico, ma unico per chi? Perché agli occhi di un romantico individualismo ognuno vede la singolarità della propria storia. La vera domanda è se ogni storia di lettura non sia davvero una sorta di compromesso, come quelle coppie di lunga data: due unicum che s’incontrano, fatti di tasselli percettivi simili, magari uguali, ma con occhi diversi. Una storia deve essere percepita dalla singolarità di chi legge: il modo migliore per saperlo è quella sensazione finale, un misto di appagamento, viaggio e condivisione. La narrativa ha la missione di far scoprire come rinunciare al proprio io anche quando si è protagonisti.

Titolo: Notti Insonni
Autore: Elizabeth Hardwick
Traduzione di: Claudia Durastanti
Editore: Blackie Edizioni
Anno: 2021
Pagine: 176
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