Geografie letterarie viaggia tra i rapporti di influenza che spesso s’instaurano non solo tra autore e opera ma anche tra autore e luogo in cui vive.
La cosa affascinante e inquietante di ogni città è che prima o poi su di essa calerà la notte. Tutto quello che appariva chiaro alla luce del sole diventa un rifugio segreto destinato a esistere solo nelle ore buie.
Le ombre sono particolarmente lunghe a New York e la Harlem degli anni Sessanta ha qualche differenza con il quartiere dei nuovi arrivati agli inizi Novecento, come lo aveva descritto Toni Morrison.
Il volto che mostra James Baldwin in Un altro mondo è il lato oscurato di una superficie lunare, tanto lontana dal fascino che l’aveva ammantata. Inizia con il vagare di un uomo di colore, Rufus, sporco, esausto, affamato, con l’urgenza di liberarsi la vescica e proseguire con la solitudine scandita dai ricordi.
Mentre componeva Another Country, Baldwin era in piena crisi creativa. Aveva abbandonato Harlem alla fine degli anni Quaranta, poco più che ventenne, per trasferirsi a Parigi. Dopo il successo de La stanza di Giovanni i personaggi del nuovo romanzo non gli «parlavano» e solo un viaggio a Istanbul con il silenzio di una lingua sconosciuta, lo spinsero a finire il libro.
Ricordava una versione particolare della zona in cui era nato: il padre era violento, ritratto di un quartiere sovraffollato i cui abitanti conoscevano presto la prigione o la droga. E se i protagonisti faticavano a emergere, Baldwin li immerge nelle questioni che scuotevano il tempo e che lui analizzò sempre da outsider, escluso da omosessuale e persino dalla comunità nera per non aver preso una decisione netta nella lotta per i diritti civili.
Diviso in tre parti Un altro mondo è un intreccio di storie amorose: tra Rufus e Leona, una donna bianca del sud; tra Rufus ed Eric, un attore emigrato a Parigi che ritornerà a New York; tra un bianco, Vivaldo, e una nera, Ida, sorella di Rufus. Un romanzo corale dove tutti sono destinati a confrontarsi con solitudini sorrette da una rabbia irrazionale che rischia di capovolgere i rapporti ogni volta che affiora.
I limiti e le zone d’ombra della personalità s’impongono con tale violenza da far venire il dubbio di essere controllate dai pregiudizi: la razza, il colore della pelle, il sesso, l’omosessualità.
Sembra, quella città, ignorare le esigenze della vita umana; è così familiare e insieme così estranea da risultare alla fine la città più disperatamente desolata al mondo. Ti sballotta in un continuo groviglio, e tuttavia ti nega un qualsiasi contatto umano: anche se non sei solo a New York, devi batterti fino all’ultimo per non morire di solitudine. E questa lotta, e le sue tante manifestazioni, crea lo strano clima della città.
(James Baldwin, Un altro mondo, traduzione di Attilio Veraldi, Le Lettere, 2004, p.225)

La lotta e lo scontro, fisico o verbale, sono gli unici modi per non sentirsi soggiogati da se stessi. L’affannarsi a essere il più forte abbassa il confronto a livelli animaleschi: sopraffare con il sesso, sottomettere con la forza, amare con rancore. È quello che fa Rufus, frustrato da un’identità sessuale ancora non definita e mescolata pericolosamente al razzismo. Ida, invece, più del lutto si porterà dentro la traccia della differenza: il colore della pelle che per lei determina i rapporti tra bianchi e neri. La sua vita assomiglia più a una vendetta per dominare, non condividere, i sentimenti di Vivaldo.
Era accanto a lui nel letto, ma era al tempo stesso lontanissima; gli era vicina ma lui era solo. Chissà in quale luogo segreto, appartato, se ne stava lei, a sorvegliarsi, controllarsi, a lottare contro di lui. Era sicuro che lei avesse deciso da un pezzo quali erano i limiti esatti, quanto poteva concedergli – e lui non era riuscito a strappare una briciola in più.
(James Baldwin, Un altro mondo, traduzione di Attilio Veraldi, Le Lettere, 2004 p. 171)
I personaggi non dialogano con l’autore perché sono schivi persino con chi li legge. Preferiscono pensare, dedicarsi a lunghe riflessioni, piuttosto che parlare, soprattutto quando la parola è un brutto scherzo dell’impulsività. Malamente connessi tra loro si isolano con il risultato di non conoscere affatto chi gli sta accanto.
La scenografia è la città notturna dei vagabondi, delle feste alcoliche, del sudore di musicisti durante un pezzo jazz in locali striminziti. Tutti sanno che c’è una New York che deve sudare e una New York che sta ad ascoltare e Baldwin è uno dei pochi che al tempo si era reso conto che il razzismo non era mai unidirezionale, ma rischiava di diffondersi indistintamente come forma di autoreclusione. È una New York che ricorda continuamente le differenze scoprendo l’equilibrio precario delle diversità che l’hanno resa speciale.
Nota alla traduzione: In alcuni punti la traduzione non è adatta alla lingua d’origine né a quella di arrivo. Per esempio, nei dialoghi stonano le apocopi dei verbi (“son”, “far”, “van”) che non hanno nessun motivo di comparire e a lungo andare sono ridondanti. Altri dettagli: perché usare “berta” (p. 19) se gli organi genitali femminili possono essere indicati con maggiore volgarità con altri termini? “Invertito” (p.316) al posto di “omosessuale” è decisamente da evitare.
Autore: James Baldwin
Traduzione: Attilio Veraldi
Editore: Le Lettere
Anno: 2004
Pagine: 423
Prezzo: € 16,50
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[…] Baldwin è stato il tragico narratore di una New York senza pietà in Un altro mondo. Una New York che non agiva, ma stava a guardare il disfacimento di rapporti tra uomini e vedeva […]