«Puoi trascorrere il tempo da solo a rimuginare sui rimpianti del passato/ oppure puoi scendere a patti con te stesso/ e realizzare che tu sei l’unico che non riesce a perdonarsi/ Ha molto più senso vivere nel presente.» La voce di Eddie Vedder in Present Tense, unita alle ultime scene di The last Dance, è una dichiarazione d’intenti, un’eco salmodiata al cospetto di chi quella vita l’ha vissuta esattamente così. Parole che avremmo considerato profetiche all’inizio della carriera di Michael Jordan ora non fanno che riassumere una parabola la cui curva non siamo sicuri abbia esaurito la sua ascesa. Anche se il punto più alto è l’apice infuocato del sigaro che sta fumando ci chiediamo se la sua figura imbolsita, l’espressione aggrottata dall’esperienza, le dita plasmate dalla palla, conservino il loro nucleo originario.
L’impatto con la figura di Michael Jordan che racconta i fasti dei Chicago Bulls nelle dieci puntate del documentario disponibile su Netflix, ci fa avvicinare al giudizio che diamo davanti alle immagini di Ronaldo Luís Nazário o di Maradona: la domanda è se chi ha fatto del lavoro col corpo – l’intelligenza tecnica per muoverlo, lo sviluppo di un talento innato mosso da una disciplina ascetica – sia imploso per età, per vizio, e abbia sfatato il mito che noi comuni mortali avevamo intravisto. Lo avvertiamo come un tradimento, come se l’immortalità del successo competitivo fosse svanita per una questione così terrena, un peccato della carne.
In The Last Dance, tuttavia, questa impressione è presto abbandonata perché si viene coinvolti in un vortice temporale in grado di richiamare da una parte le memorie personali (di chiunque sia nato tra gli anni Ottanta e inizi anni Novanta), e dall’altra un mondo dei miti che non c’è più.
Per parlare del documentario che ripercorre la carriera di Jordan sarebbe molto facile affidarsi al giudizio di un codice visivo e formale piegato alla facile retorica della rivalsa e della rinascita dalle ceneri. Voci autorevoli, come quella del documentarista Ken Burns, hanno affermato che la deontologia giornalistica è andata a farsi benedire nel momento in cui Jordan si è accordato con il commissioner NBA per avere sempre l’ultima parola sulle riprese da usare. The Last Dance potrebbe quindi apparire come un documentario compilativo, che ha visto l’utilizzo di oltre 500 ore di riprese esclusive della stagione ‘97-‘98 del Bulls e un po’ di filmati delle partite del passato unite a interviste dal tenore didascalico. A un’occhiata superficiale sarebbe mancata l’incisività del regista, ma c’è da ammettere che il montaggio incalzante che ci traghetta tra gli anni Novanta e indietro nel tempo, alle origini dei protagonisti della squadra, restituisce forza narrativa a un racconto altrimenti sterile. In poche parole, vi aggiunge gli elementi di una storia a partire dalle sfaccettature che andranno a definire i protagonisti: il gigante buono Phil Jackson, la lotta dell’antieroe Michael Jordan, i custodi troppo umani nei panni di Pippen e Roddman, il cattivo Jerry Krause, il capitalista indifferente che muove i destini economici dell’intera squadra. La reazione dello spettatore è quella di un entusiasmo diffuso, anche da parte di chi non ha mai provato interesse per il basket. La potenza narrativa è amplificata dalla consapevolezza che si tratta della realtà, o meglio, di un mito reale che non sarà più.
Il documentario permette di andare oltre l’immagine di Michael Jordan come ingranaggio di una macchina del marketing. È chiaro che, così come il whisky e i sigari, il marketing Jordan ha saputo riadattarsi ai tempi, ma più interessante è considerare una serie di condizioni che favorirono la metamorfosi di un’immagine forte in un carisma articolato e indimenticabile.
Negli anni Ottanta e Novanta la televisione viveva l’Era d’Oro, s’insinuava come forma d’intrattenimento disimpegnato e come livella di ogni differenza. Il marketing transazionale, che tanto aveva spremuto i mad men, si tramutava in quello relazionale: l’acquirente non era il destinatario di un processo unidirezionale (pubblicità ⇒ acquisto del prodotto) ma un “supporter” che acquistava il prodotto e aderiva a una causa plasmando parte della sua personalità. Indossare la felpa dei Chicago Bulls o un paio di sneakers Air Jordan negli anni Novanta, persino nelle parti più sperdute della provincia italiana, etichettava immediatamente come amante di uno sport “di nicchia”, magari ascoltatore di un determinato tipo di musica che copriva il ritmo dall’R&B fino all’hip hop.
In questo contesto però MJ ha avuto la forza di non essere fagocitato dalla pubblicità diventandone, invece, il simbolo. Uno sguardo distratto a tutte le pubblicità del tempo ci fa notare il mutismo dell’atleta: intravediamo molto poco di quanto dichiarava col suo gioco in campo. L’introduzione delle Air Jordan è l’elemento di disruptive innovation che sovverte le regole dell’NBA. Quando l’atleta indossò le nuove scarpe violò lo standard dei colori ammessi sul campo da gioco: quella che poteva sembrare solo una mossa pubblicitaria battezzò un marchio indelebile insieme a un fortunato connubio tra ribellione e talento. MJ divenne e plasmò il marchio e non fu mai il volto imbarazzato dell’atleta di turno in cerca di sponsor.

In Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore David Foster Wallace scrive che «i grandi atleti sono affascinanti perché incarnano il successo basato sul confronto che noi americani veneriamo – il più veloce, il più forte – e perché lo fanno in modo non ambiguo». Se è vero per Michael Jordan, c’è un momento, pochi secondi, in cui il The Last Dance vira in un luogo sconosciuto. Mentre si parla della tendenza di MJ a riprendere duramente i compagni durante gli allenamenti ritroviamo il campione in una smorfia commossa: «Non gli chiedevo niente che io non facessi». Il marketing scompare insieme al personaggio pubblico, se mai ne abbia interpretato uno, rimane l’essere umano prostrato al cospetto di un sentimento di uguaglianza, di timore di fallimento, di ritorno all’uomo qualunque, di dipendenza da uno stato perenne iperattivo e competitivo. È come se emergessero il desiderio e il timore di un essere profondamente inconoscibile, la cecità di un talento afasico che si apre a noi con l’innocenza di un bambino.
Il mito di MJ è un insieme polimorfico di segni e simboli, la chiave di volta di un sistema che ha il suo cuore in un ossimoro: il sismografo impazzito e imprevedibile della natura umana, e un sistema di comunicazione controllato dalla reclame per un pubblico indifferenziato. Una condizione che oggi vediamo verificarsi molto raramente.
Chi può essere definito un mito, oggi? Quali sono le sue caratteristiche imprescindibili?
Potremmo ricorrere a Roland Barthes e al suo Miti d’oggi – libro che raccoglie scritti su fenomeni di costume della pop culture e il saggio più generale sul mito. «Il mito è una parola» e come tale è sottoposta a un processo di uso e abbandono degli esseri umani dimostrando la sua subordinazione alla storia. Il mito è un sistema di comunicazione composito che non si identifica nell’oggetto del messaggio ma nel modo in cui lo proferisce. Segni e simboli sono una parte del tutto e hanno con la realtà un rapporto di deformazione: ogni sistema semiologico diventa un sistema di valori che spesso il fruitore confonde come fatti (Michael Jordan non rappresenta ma è il simbolo dell’America capitalista).
La visione di Barthes, seppur calzante per il monito all’interpretazione continua e disincantata dei miti, non racchiude la grande varietà di casi che costruiscono e distruggo miti e idoli dei giorni nostri. Basta guardare la classifica delle icone pop più seguite su Instagram nel 2020, notare la sua fluidità (la classifica può cambiare di anno in anno) e realizzare di essere davanti a miti istantanei con caratteristiche ben precise.
Per esempio, si collocano nel nostro tempo e diventano parte costante della nostra quotidianità. Il loro essere così vicini alla contingenza del reale provoca un cortocircuito tra persona e intrattenimento. L’allucinazione della vicinanza percepita, di solito, può generare come risposta l’hater o il moralizzatore, troll nel peggiore dei casi, che tratta quello che è fondamentalmente uno sconosciuto con la stessa familiarità e incoscienza di un conoscente.
In secondo luogo, le caratteristiche del mezzo insieme agli obiettivi di diffusione e promozione ininterrotta hanno la capacità di appiattire le possibilità comunicative con pochi format disponibili (24 ore delle stories, 240 caratteri per un tweet) e hanno creato da un lato la cerimonia del racconto (della giornata, delle gioie e delle incombenze della vita, dei prodotti da provare e così via) e dall’altro una ritualizzazione del consumo di racconti. L’esposizione continua e il bisogno di condivisione sono tali da impreziosire e gettare nel dimenticatoio tutte quelle pause del vissuto che un tempo vivevano nell’oblio: la meta misteriosa di una vacanza si annulla taggando l’hotel in cui alloggiamo, l’hamburger che stiamo mangiando diventa il modello ideale per le nostre foto. Ma è proprio l’esposizione così terrena ad esaltare la personalità di chi si mette in scena e a creare quell’equivoco cognitivo che aumenta la realtà stessa. All’influencer c’è chi si rivolge con la stessa confidenza di un amico ed ecco spiegato anche il senso di tradimento di chi rimane deluso dai miti istantanei: un’unica affermazione che intacca l’immagine simulata, ispiratrice di fiducia, comporta una caduta libera, nel peggiore dei casi, nell’impopolarità (con la poca clemenza che caratterizza la memoria del web).
C’è un momento nell’ultima puntata di The Last Dance in cui Andrea Kremer, corrispondente ESPN, afferma che la popolarità di Jordan deve essere apprezzata ancora di più perché in quegli anni «non c’erano piattaforme a livello mondiale. Non ci si poteva promuovere sui social media, postare video, tweet o cose del genere. Lui diventò famoso per il suo gioco e per la sua straordinaria personalità». In effetti le zone d’ombra della vita di MJ sono paragonabili allo spazio del lettore che non ha accesso all’intera vita di un personaggio: ciò contribuisce a mistificarne la figura creando uno specchio in cui il lettore stesso genera, a sua volta, un caleidoscopio di storie personali che non avrebbero mai visto la luce. La creazione di tali storie era un esercizio molto utile all’interpretazione della realtà perché aiutava a sviluppare una prospettiva personale e originale che si rinnovava a una nuova affermazione di MJ.
Oggi la metafora della trasparenza è applicata nei suoi significati più estremi: se da un lato comporta l’apertura responsabile in ambiti sociali e politici, dall’altro pretende di eliminare tutte le presunte asperità ideologiche fino a creare l’illusione di rapporti di potere simmetrici. Nel panottico digitale ognuno osserva e ha l’illusione di controllare le affermazioni altrui rivestendo le proprie di moralità e potere. «Anche i Repubblicani comprano le sneakers», l’affermazione di MJ quando gli chiesero di supportare un politico di colore del Partito Democratico sarebbe stata dissezionata, memizzata e soggetta all’interpretazione più estrema.
La condivisione ininterrotta ha sacrificato tutto per il sensazionalismo e la spettacolarizzazione. L’arrivo del meme prima della notizia, la notorietà folkloristica del periodo hanno stabilito una contiguità che travolge senza sosta il quotidiano. Ecco perché il mito istantaneo sembra mosso da due spinte opposte: da una parte l’esposizione massima e ininterrotta porta con sé un alto rischio di demistificazione, dall’altro l’intensificazione dell’esperienza ordinaria può smascherare, in tempi molto brevi, quello che non è coerente con il rispetto, la libertà e la cura reciproci.
Perfettamente in linea con la dinamica capitalistica spiegata anche da Mark Fisher in Realismo capitalista, il sistema stesso è in grado di includere «materiali che prima sembravano godere di un potenziale sovversivo». Il processo di precorporazione su Instagram per esempio ci mette a disposizione le due facce della stessa medaglia: da una parte i profili patinati, curati cromaticamente e graficamente, e dall’altra account che smascherano la narrazione reiterata e il processo mutante di un filtro postprodotto. Paghiamo l’accelerazione dello scambio, il vivere a stretto contatto con una contemporaneità che potrà chiarire il suo significato solo a distanza di anni, ma abbiamo tutti gli strumenti per selezionare e ricercare chi si addice alla nostra personalità e al nostro credo. E noi siamo sicurissimi che i nostri valori e le nostre azioni siano completamente trasparenti e corretti, vero?
Letture consigliate:
- Un ritratto completo e appassionato di Michael Jordan
- Miti d’oggi di Roland Barthes
- La società della trasparenza di Byung-Chul Han
- Realismo capitalista di Mark Fisher