Geografie letterarie viaggia tra i rapporti di influenza che spesso s’instaurano non solo tra autore e opera ma anche tra autore e luogo in cui vive.
Upper East Side, In transito
Della realtà di New York è bastato New York Stories per riassumerne il più possibile i tratti caratteristici, nonostante ogni racconto si distingui dall’altro per voce e stile. Su alcuni approcci tipici alla città eterna, alcuni sembravano concordare: speranza e possibilità indipendentemente dal finale della storia.
Il singolo può illudersi di coprire l’estensione di un’intera città, c’è chi si illude di conoscere Brooklyn (sappiamo che Solo i morti conoscono Brooklyn, giusto?), quando quello che può fare è essere spettatore di mondi con diverse velocità, cresciuti e sviluppatisi spontaneamente, come se quanto accade al buio delle palazzine, tra i grattacieli e i mulinelli di polvere che scricchiola tra i denti fino alle anatre in Central Park, avessero bisogno di attori adatti.
Non importa quanto New York possa usarti, perché non daresti mai la colpa a chi ti seduce soddisfacendo ogni tua fantasia. Non daresti mai la colpa a una città. Soprattutto se sei uno scrittore che sente questo posto come suo. E anche un buco di appartamento è un punto fisso che dà la spinta adatta contro le forze centrifughe esercitate dalla metropoli.
Più che del narratore, acuto osservatore, Colazione da Tiffany è la storia di Holly Golightly, vispa, ingenua e piena di speranze. Agli uomini di New York degli anni Cinquanta basta stringere le mani giuste, sedurre per un momento per poi essere inghiottiti e dimenticati come un accessorio; alle donne New York chiede la bellezza brillante dello skyline, secondo John Cheever, prima che lo specchiarsi nei grattacieli si trasformi in una caduta nella loro ombra.
Holly Golightly è diversa perché fa dello smarrimento la sua forza, il punto di riferimento come l’appartamento per lo scrittore.
Mi sono accorta che per sentirmi meglio mi basta prendere un taxi e farmi portare da Tiffany. È una cosa che mi calma subito, quel silenzio e quell’aria superba: non ci può capitare niente di brutto là dentro, non con quei cortesi signori vestiti così bene, con quel simpatico odore d’argento e di portafogli di coccodrillo. Se riuscissi a trovare un posto vero e concreto dove abitare che mi desse le medesime sensazioni di Tiffany, allora comprerei un po’ di mobili e darei un nome al gatto.
(Truman Capote, Colazione da Tiffany, traduzione di Bruno Tasso, Garzanti)
Verità come risalire la piramide sociale grazie a matrimoni improvvisati, sono inghiottite con la stessa facilità con cui si ingeriscono sonniferi, preoccupazioni come rivalità sono soffiate via come una boccata di marijuana. Tuttavia se la grande mela cambia Holly all’esterno, il suo animo non viene intaccato quando non rinuncia alla solidarietà o all’ingenuità verso chi la circonda.
Un po’ come Gatsby e Nick Carraway, l’amicizia piena di affetto tra il narratore e Holly (e non la storia d’amore come si vede nel film) è la cosa più autentica e vicina alla verità a New York. Dopo lo sguardo amaro di Fitzgerald, Capote ne riporta le tinte più frivole, ma sempre contorniate dalla malinconia, come se senza di essa la felicità non avrebbe lo stesso sapore.
Se doveva dire a chi si fosse ispirato per Holly, Capote non aveva una risposta precisa. Tutte volevano circondarsi della sua presenza e tutte da quel momento in poi dissero di essere la protagonista. Di Holly non ce n’è una sola, di New York sì, Capote al tempo lo sapeva, e con un piccolo componimento è riuscito a raccontare la maggior parte delle storie.
Autore: Truman Capote
Editore: Garzanti
Traduzione: Bruno Tasso
Anno: 2007
Pagine: 128
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Wall Street, Preferirei di no
Rimarremo a Manhattan per un po’, in fondo il centro delle città, il microcosmo dal quale si irradiano realtà che fanno parte di un’intera metropoli.
Non andiamo in cerca di svago, come potrebbero assicurarlo Gatsby o Holly Golightly, ma anche di affari nei pressi di Wall Street. Eppure dal piccolo racconto di Herman Melville, la pista degli affari diventa presto una coprotagonista lasciando il posto a qualcuno che «preferirebbe» non occuparlo. La vicenda di Bartleby lo scrivano rimane particolare proprio perché soggetta a interpretazioni tanto sfuggenti da essere plausibili e inattaccabili.
L’intera narrazione è portata avanti, in prima persona, da un avvocato che si trova a descrivere, con occhio spesso ironico, le vicissitudini del suo studio legale. Alle sue dipendenze ha due impiegati che, con l’alternanza di umori, scandiscono la produttività lavorativa: Turkey iperattivo durante la mattina proprio quando Nippers soffre di indigestione. All’eccentrico ambiente lavorativo si unirà Bartleby di cui conosceremo pochi dettagli, neanche il nome di battesimo o cosa facesse nella vita privata se non aver lavorato precedentemente nell’Ufficio delle dead letters (letteralmente “lettere morte” che si traduce con “lettere smarrite”). Dopo un primo momento in cui Bartleby si rivela un lavoratore instancabile, all’improvviso tutta l’energia si esaurisce nelle parole «preferirei di no». Non c’è richiesta, non c’è domanda rivoltagli che abbia risposta diversa e che renda tutti i dialoghi unidirezionali.
«Strada del Muro», così Fernanda Pivano traduce Wall Street per sottolineare quanto Melville si dimostrasse acuto nelle coincidenze linguistiche disseminate nel testo. Il panorama claustrofobico echeggiato dal nome della strada si realizza nel piccolo angolo riservato a Bartleby nell’ufficio del suo capo che, a sua volta, si affaccia su un «muro di mattoni, anneriti dal tempo e sempre in ombra». Lo stesso muro comunicativo che trova chiunque provi a parlare con lui.
Si potrebbero citare le coincidenze esplicite nei nomi degli impiegati (Turkey, cioè Tacchino, Nippers cioè Pinze o Chele, Ginger Nut noce di Zenzero) o le parole di dominio religioso usate dal narratore per decantare le doti lavorative. Certo è che Bartleby lo scrivano arrivava con una bella dose di amarezza, in un momento di crisi nella carriera di Melville. Rotta l’amicizia con Howthorne, neanche i critici gli davano sostegno con le opere successive a Moby Dick. Non è un caso che molti abbiano intravisto in Bartleby la condizione dello scrittore, chiuso nella sua solitudine e nell’incomunicabilità con il mondo.
La figura di Bartleby è complessa perché non suscita commenti e, allo stesso tempo, urla anche se pronuncia la stessa battuta fino alla fine. Se dovessi riassumere la sua essenza sarebbe metafora. Perché Bartleby è un individuo così unidimensionale da diventare altro da sé, seguito da un’ombra più grande che lo astrae dal racconto e lo trasla su un dimensione simbolica.
Questo è anche il motivo per cui fino a oggi non si riescono a contare le miriadi di interpretazioni ad esso associate. L’ultima per esempio è attribuita al movimento Occupay Wall Street: alcuni scrittori, librai e manifestanti hanno tenuto una lettura del racconto di Melville, considerando Bartleby non come inguaribile passivo arreso agli eventi, ma come un critico interno che si oppone ai ritmi imposti dall’era capitalista.
L’isolamento autoimposto contrasta con le manie degli altri lavoratoti, ansiosi di completare il lavoro e averne dell’altro, e rende il personaggio tanto coraggioso da significare sacrificio per chiunque voglia esercitare il libero arbitrio. Come se la solitudine permettesse di eliminare ogni tipo di condizionamento omologante.
Di Bartleby lo scrivano la parte più importante è la conclusione. Se speriamo di trovare una soluzione nonostante il coraggio del silenzio, questo non porta da nessuna parte.
Autore: Herman Melville
Editore: Einaudi
Traduzione: Enzo Giachino
Anno: 1994
Pagine: 103
P.S.: Un’interessante versione annotata e interattiva di Bartleby lo scrivano. Si possono selezionare le note da visualizzare in base ad aree tematiche come comedy, commentary, history, economics e così via.