Quando Máirtín Ó Cadhain scrive Parole nella polvere ha alle spalle raccolte di racconti, pamphlet politici, traduzioni e un’intensa attività politica come sostenitore dell’indipendenza irlandese che gli valse il campo di prigionia poco dopo l’inizio della seconda guerra mondiale. Con sé non aveva solo una fame per la lettura e la scrittura ma anche una cultura sterminata, tutta radicata nella provincia irlandese. Tra le distese di un verde sgargiante, alternate ai piccoli corsi d’acqua e alle scogliere spigolose, si sviluppavano i villaggi con comunità fatte di conoscenze intime e di tradizioni tramandate oralmente. Questo mondo a parte aveva un carattere molto diverso da quello inglese, un carattere forgiato da racconti, ballate e leggende sempre diverse a seconda di chi raccontava. Una storia orale, collettiva e in divenire che ha rischiato di perdersi dopo la conquista inglese con i suoi sconvolgimenti politici, sociali e il monopolio del mondo culturale.
Quando Alan Titley, colui che si è occupato della traduzione dall’irlandese all’inglese dell’opera di Ó Cadhain, descrive Parole nella polvere (Cré na Cille in lingua originale) come “uno dei grandi esiti del romanzo irlandese” intende qualcosa che va al di là della semplice lingua in cui è scritto il romanzo. Ó Cadhain stabilisce una forte dipendenza tra il mondo d’origine, fatto soprattutto delle persone che lo popolano, e la lingua e la comunicazione come peculiarità culturali. Parole nella polvere ha la forma di un eterno dialogo tra i defunti di un cimitero. In questo caso la lingua non riproduce un mondo ma è il mondo stesso: privo di stacchi e strutturato come la sceneggiatura di una giornata tra la folla, in cui chiunque può intervenire pur rimanendo sconosciuto fino alla fine. Tuttavia, seguendo la narrazione è possibile ricostruire gradualmente i rapporti e persino le espressioni tipiche dei principali protagonisti. Bisognerà comporre il mosaico di allusioni e pettegolezzi che ogni personaggio aggiungerà con la sua entrata in scena.
La parola è il cardine della piccola comunità che riprodurrà nell’oltretomba dinamiche vissute in superficie. Gli unici punti che funzionano come un prologo alle scene successive sono posti all’inizio di ogni capitolo e si distaccano dal tono colloquiale per usare su un registro aulico, contorto, che inconsapevolmente canzona le preoccupazioni terrene dei morti. È la Tromba del Cimitero, una presenza onnisciente e praticamente indifferente alle vicende umane che funziona come lente chiaroscurale tra il colloquio semplice e a tratti volgare ma caratterizzato alla perfezione e la raffinatezza di uno stile incorporeo.
Sono la Tromba del cimitero. Che la mia voce risuoni! Deve risuonare…
Perché io sono tutte le voci che erano, sono e saranno. La prima voce nell’universo senza forma. L’ultima che si leverà tra la polvere del Giudizio Universale. La voce ovattata del primo embrione nel primo utero. Quando il grano dorato è stipato nel granaio, sono la voce che richiama l’ultimo spigolatore del Campo di Grano del Tempo. Perché io sono il figlio primogenito del Tempo e della Vita, l’amministratore della loro dimora. Sono il mietitore, l’imballatore e il trebbiatore del Tempo. Sono il custode, il depositario e il sorvegliante della Vita. Che la mia voce risuoni! Deve risuonare…
(Máirtín Ó Cadhain, Parole nella polvere, traduzione di Luisa Anzolin, Laura Macedonio, Vincenzo Perna e Thais Siciliano, Lindau edizioni, 2017, p. 89)
Il ritmo della narrazione è orchestrato come un lungo piano sequenza che ingrandisce alcune situazioni e poi si allontana gradualmente per riprenderne altre. Le poche situazioni descrittive Ó Cadhain le fa proferire dai defunti o non lascia alcuna traccia se non accennarla più avanti. La grande abilità sta nel comporre una narrazione apparentemente frammentata e scollegata ma mantenendo sempre un filo di fondo da seguire. L’eco ricorrente sarà quello dell’Antologia di Spoon River e i rimandi più attuali potrebbero portare alla concomitanza con l’uscita di Lincoln nel Bardo, ma a parte i punti in comune con l’idea iniziale, Ó Cadhain intraprende un percorso tutto personale. La missione della lingua unita a quella letteraria danno vita a una delle prime opere che catapulta la letteratura irlandese nell’era del modernismo e che poi in inglese, tra gli altri, toccherà anche James Joyce. Più precisamente, per avere un’idea del tipo di scrittura e del tipo di mondo di Máirtín Ó Cadhain si può recuperare anche Tutto in ordine e al suo posto di Brian Friel, uscito per marcos y marcos con la traduzione di Daniele Benati. Due scrittori di origini irlandesi che hanno fatto delle situazioni quotidiane dei veri e propri palcoscenici. Laddove Ó Cadhain include esclusivamente il parlato, Friel lo inserisce in una narrazione canonica lasciando però ai dialoghi il verdetto finale della vicenda. Non è un caso se Friel è stato uno degli autori più rappresentati a teatro, mentre l’opera di Ó Cadhain ha subito numerose trasposizioni radiofoniche.
La lettura richiesta da un’opera del genere è un lento e metodico avvicinamento ai protagonisti, all’inizio distanti, quasi scostanti nella loro nudità di descrizioni e vestiti esclusivamente di parole. Anche Lindau che pubblica per la prima volta in Italia Parole nella polvere ha spiegato il lavoro e la cura dietro il libro: il coinvolgimento di quattro traduttori (Luisa Anzolin, Laura Macedonio, Vincenzo Perna e Thais Siciliano) che potessero dialogare così da rimanere fedeli alla struttura del libro e il confronto di tre traduzioni inglesi. La stessa cura e attenzione è necessaria dai lettori per avvicinarsi a un’idea di classico particolare, in grado di rappresentare i limiti della natura umana.
Titolo: Parole nella polvere
Autore: Máirtín Ó Cadhain
Traduzione: Luisa Anzolin, Laura Macedonio, Vincenzo Perna e Thais Siciliano
Editore: Lindau
Pagine: 400
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