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Mad Men: il ritratto degli anni Sessanta

Serie tv e libri, due mondi non così lontani come pensiamo. Entrambi sono in grado di evocare, la prima con immagini e dialoghi, la seconda con l’immaginazione lasciata al lettore, mondi sconosciuti. Serialibri si propone di indagare i pregi e i difetti della serialità televisiva per incrociarla con i libri, in un gioco di rimandi probabilmente infinito.

L’eco della fine di Mad Men ha scosso i media americani tanto da arrivare anche qui in Italia.

Per qualità registica, di scrittura e recitazione la serie di Matthew Weiner si unisce a quell’insieme di serie televisive come I Soprano o Breaking Bad che diventano pezzi di cinema a portata di televisione.

Quel misto di qualità, complessità e innovazione narrativa si fonde alla possibilità di prolungare il piacere attraverso la suddivisione in puntate e, se gradite, di accrescere il desiderio settimana dopo settimana.

Mad Men oltre a indicare la natura folle e instabile dei protagonisti, si riferisce a figure mitologiche degli anni Sessanta che popolavano Madison Avenue, celebre strada di New York dove un tempo si concentravano le agenzie pubblicitarie. Basterebbe questo per incuriosire lo spettatore che sa di trovarsi nel tempo dell’elezione di Kennedy, nella lotta per i diritti civili, nel bel mezzo della Guerra Fredda e in procinto dello sbarco sulla luna, avvenimenti che in un modo o nell’altro hanno modellato la storia contemporanea statunitense e internazionale.

Perché proprio gli anni Sessanta? Perché è da qui che “la ricerca della felicità”, idea romantica tanto quanto aleatoria, viene declinata in una miriade di significati. In un mondo reduce dalla seconda guerra mondiale una nozione così astratta doveva essere sentita, annusata, toccata, così il desiderio di benessere si trasforma nel possesso materiale. Il possedere diventa sinonimo di consumismo e il sogno americano viene issato su un’impalcatura di televisioni, automobili, case con bianchi steccati, equivocando il tutto con un processo di elevazione sociale ma non interiore.

Ed è proprio la pubblicità uno dei centri creatori di bisogni che non esistono, che riflette la realtà modificandola dall’interno aggiungendovi significati nuovi.

In Mad Men a incarnare il self-made man tipico del periodo è Donald Draper. Chiamatelo pure Don nella frenesia degli uffici dell’agenzia pubblicitaria Sterlig & Cooper. Don è il direttore creativo, dal passato oscuro, fautore della filosofia del qui e ora e degno erede della mentalità wasp degli anni precedenti.

Lui incarnerà con maestria il sogno americano di quel periodo, che non guardava al sesso, all’età o all’estrazione sociale, ma a quanto si era disposti a reinventarsi e cosa si metteva in gioco.

mad-men-castDire che Mad Men è una serie sulla pubblicità è aver carpito il suo strato superficiale. Meglio affermare che la pubblicità è uno degli avamposti ideali dal quale osservare i cambiamenti della società che si riverberano sugli uomini e le donne della Sterling & Cooper. Sempre combattuti tra l’ancorarsi al sistema valoriale dominante e l’impossibilità di costruire la propria immagine come un brand.

Mad Men è una serie diversa da quelle che siamo abituati a ricevere dalla serialità americana. Il colpo di scena, l’azione immediata non fanno parte della sua definizione. Si tratta, piuttosto, di uno sviluppo lento, che spesso è più un’involuzione, e di una cura del lato psicologico dei personaggi che rasenta il reale. E poi c’è una fotografia impeccabile, l’attenzione maniacale per scenografie e costumi, la cura nella ricostruzione del clima dell’epoca attraverso gli ambienti tipici dei film del periodo.

Tutti espedienti che incorniciano l’anima degli anni Sessanta newyorchesi e gli infondono un’identità chiara e inconfondibile, mentre indagano nei successi e nei fallimenti dei protagonisti ossessionati dalla ricerca di se stessi.

«Ah per amore lei intende quel fulmine che ti spacca il cuore, che non ti fa mangiare né lavorare, che ti porta di corsa a sposarti e a fare figli. Il motivo per cui non l’ha provato è che non esiste. Vede, quel tipo di amore è stato inventato da quelli come me per vendere calze»

Dice Don Draper nella prima puntata anche se si contraddirà continuamente perdendosi nel labirinto dell’american way of life.

Letture

51fcdV6eksL._SX377_BO1,204,203,200_Ogilvy On Advertising, David Ogilvy.

Quando scrivo una pubblicità, non voglio che tu la trovi “creativa”. Voglio che la trovi così interessante da comprare il prodotto.

Così David Ogilvy ha definito la pubblicità nel libro che ne sfata alcuni miti. Il “Padre della Pubblicità” secondo il New York Times e “il mago più ricercato nell’industria pubblicitaria contemporanea” per il Time, è stato uno dei più importanti protagonisti che, insieme a Bill Bernbach e Leo Burnett, ha dato una spinta alla rivoluzione creativa degli anni Sessanta.

Con semplicità, quasi ai limiti tra la scrittura di un saggio e il linguaggio lapidario degli annunci pubblicitari, Ogilvy espone i punti più importanti del suo mestiere con esempi pratici e consigli, non troppo approfonditi, per i lettori.

Come produrre una pubblicità che vende; Lavori in pubblicità, come ottenerli; Come gestire un’agenzia pubblicitaria, sono alcuni dei capitoli del libro che preferiscono un approccio schematico e pratico, come se gli appassionati dovessero prendere e stampare tutti i punti su pietra, alla stregua dei dieci comandamenti.

Nella visione idealizzata della maggior parte delle persone c’è la figura del pubblicitario dedito alla creatività, quando in realtà non c’è alcuna arte se non quella del fiuto. Ogilvy vede la pubblicità più come un media, inteso nel senso più antiquato del termine: il rapporto unidirezionale con il consumatore.

copDa quei bravi ragazzi che si sono inventati Pearl HarborJerry Della Femina.

Ogilvy si prende troppo sul serio e se siete stanchi del suo essere politically correct ci pensa un altro pubblicitario, Jerry della Femina, a confermarci che nella realtà era tutto come in Mad Men, se non peggio.

Alla fine degli anni Cinquanta una nuova generazione di pubblicitari sta per soppiantare i vecchi tromboni, anche se l’ambiente è ancora troppo ingessato: le grandi agenzie tenevano ben stretti i grandi clienti mantenendo una linea etnica ben precisa. Nessun ebreo, italiano, scozzese, chiunque non fosse un wasp, poteva entrare a far parte delle alte sfere. Così iniziarono a formarsi piccole agenzie promotrici di una nuova spinta creativa e rivoluzionaria.

Dimenticate le differenze di sesso o di genere perché all’interno delle piccole agenzie pubblicitarie chiunque si dimostrasse degno del posto veniva accolto a braccia aperte con una serie di bonus extra.

In uno sciorinare di nomi di clienti e persone realmente esistite, Jerry della Femina compone un memoir più sincero e disinibito di Ogilvy nascondendo sotto aneddoti divertenti le difficoltà e le pressioni del mondo pubblicitario.

31sH7gPxiuL._BO1,204,203,200_Il meglio della vita,  Rona Jaffe.

Alla domanda “che lavoro facevano le donne in carriera negli anni Cinquanta?”, a New York, la risposta automatica è “la segretaria”, quella che batteva a macchina, ricordava gli appuntamenti e prendeva il caffè al capo.

È proprio quello che succede a Caroline Bender, assunta come stenografa nella casa editrice Fabian. Così come le sue colleghe e tante altre donne del tempo, Caroline naviga tra le speranze di fare carriera in ambienti che fino a quel momento erano popolati soprattutto da uomini.

Il meglio della vita è l’unico romanzo della Jaffe tradotto in Italia e, a quanto ho letto, se proprio le si vuole dare una classificazione, più che femminista, è da annoverarsi nella chicken literature (letteratura da “galline”), volta a raccontare le disavventure tragicomiche delle sue protagoniste.

Probabilmente tratto dall’esperienza personale come editor, il libro di Rona Jaffe, uscito nel 1958, ha avuto grande fortuna – anche per il film che ne è stato tratto con Diane Baker, Joan Crawford, Hope Lange e Suzy Parker – ed è diventato una delle testimonianze più importanti, non tanto per annunciare al mondo il diritto al lavoro anche per le donne, quanto per essere in anticipo sul tempo e mostrare che la strada alternativa alla carriera da donna del focolare doveva dividersi tra lavoro e vita, o meglio, sopravvivenza.

BulletParkCheever-e1357742402985Bullet Park e i racconti brevi di John Cheever.

Non è un caso che Cheever sia stato uno degli ispiratori principali per la serie Matthew Weiner . Oltre a Bullet Park di cui avevo già parlato, molti dei racconti di Cheever ricreano quell’atmosfera affascinante e allo stesso tempo malinconica di personaggi abituati a vivere troppe identità contemporaneamente.

Sto pensando, per esempio, al racconto Il marito di campagna dove un uomo, immerso nella materialità del suo mondo, con una casa, un lavoro e la famiglia perfetta, sente di dover fuggire da tutto innamorandosi della baby-sitter ancora adolescente. Contraddizioni che si riverberano anche negli ambienti popolati dai personaggi di Cheever, divisi tra due universi letteralmente diversi: la city, la città caotica e dedita agli affari, e i suburbs, gli ambienti residenziali spesso fuori città, immersi nella campagna. Quando i sobborghi dovrebbero diventare sinonimo di unione e solidarietà, si rivelano invece ambienti asfissianti tanto quanto la città, dove basta un pettegolezzo per infrangere la maschera che ci si è procurati con cura.

La bellezza dei racconti di Cheever sta nella sensazione continua di tensione e speranza di miglioramento, di fatto impossibili, che spesso si risolvono in un ritorno alla condizione iniziale.

Contenuti extra:

 

0 commenti

  1. Tipo che io, alle serie tv non sono mai riuscita seriamente ad appassionarmi (se non forse in “giovine” età!) ma so che i due argomenti – letteratura e serie tv – sono strettamente correlati ed effettivamente sono infiniti anche gli spunti, i riferimenti e i flirt fra questi due mondi. Giuro che non appena mi verrà in mente di recuperare qualche serie tv, terrò conto di questo tuo post. Promesso! 😀

    1. Io purtroppo ho una dipendenza cronica 😛 almeno la sfrutto!

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