Quando Kent Haruf spiega com’è diventato scrittore, racconta di quando, da piccolo, aveva una malformazione al labbro e passò molto tempo in solitudine. Proprio in quel periodo ha imparato una parte fondamentale del mestiere di scrittore: registrare il mondo circostante e sentire gli altri. Diventato un insegnante i suoi vicini, una famiglia che viveva in un campo di roulotte, gli chiese cosa faceva per vivere e lui rispose che insegnava a scrivere. Quelli pensarono che insegnasse calligrafia e Haruf dice che sarebbe stata una risposta più plausibile rispetto all’insegnare come scrivere bugie convincenti.
L’incontro tra realtà e finzione nella narrativa è interessante quanto la relazione tra l’autore e le sue opere. È proprio su questo che voglio soffermarmi: il rapporto tra lo scrittore che ha composto la trilogia di Holt e l’essere umano Haruf che scrive l’ultimo lavoro prima della morte, Le nostre anime di notte.
Abbie Moore chiama Louis e lo invita, inizialmente, a passare le notti con lei, a parlare, a diventare gradualmente un’unica vita.
Ma è proprio questo a rendere divertente la faccenda. Conoscere bene qualcuno alla mia età. E scoprire che ti piace e che in fondo non sei completamente inaridito.
Due anziani iniziano a frequentarsi e il non detto diventa superfluo, perché la narrazione si compone soprattutto di dialoghi. Scegliendo questo modo di raccontare, Haruf supera un ostacolo che fin da subito si crea in chi legge: una storia a senso unico che potrebbe andare verso una conclusione non così lontana da raggiungere. Ci sarebbero i limiti fisici dei personaggi che, come per il vecchio Jack Beechum, si trasformano in un rivivere per la redenzione personale, con uno sguardo che procede in avanti nei ricordi di gioventù e indietro nella vecchiaia, fino a incontrarsi.
Quando le battute dei dialoghi dominano l’intero libro, vuol dire che i protagonisti hanno raggiunto una maturità tale da non dover aggiungere altro con parti descrittive. Le azioni di Abbie e Louis si attaccano al presente – anche se ci sono racconti dei ricordi passati – e sono, per quanto possibile, orientate al futuro.
Credi che avrei potuto scegliere chiunque? Che io voglia soltanto qualcuno che mi scaldi il letto di notte? Un anziano qualsiasi con cui parlare?
La presenza di un’unica linea temporale fa incontrare e sovrapporre l’ultima parte della vita di Haruf e la influenza in tal modo da imprimersi nella scrittura e farsi messaggio. Le nostre anime di notte sembra frettoloso, si compone di poche parti fondamentali e di molti fatti che accadono in successione, una corsa contro il tempo prima del suo corso. Più che una storia è la struttura di una storia che rimarrà spoglia di altri dettagli perché avrebbero rischiato di essere superflui.
Travalicando i confini di tempo e spazio, anche quello soffocante di Holt, rimane quello che ci si accontenta di non avere. La scrittura di Haruf si aggrappa a momenti come questi, è imprecisa, ripetitiva, forse, come diceva lui, era una bugia che conteneva una realtà sincera.
L’incontro con Cathy Haruf

Cathy Haruf chiude gli occhi per un momento, dondola la testa. Li riapre e sorride dicendo che le piace la musicalità dell’italiano, poi chiede se ha risposto alla domanda. Quanto di vero c’è nella Holt raccontata da Haruf? Holt è una paese completamente inventato, ma Kent conosceva le piccole realtà grazie a una vita in movimento con il padre metodista e poi alla sua carriera da insegnante. Ed è normale che alcuni tratti emergevano dalle piccole realtà che aveva vissuto soprattutto quando si toccava la sfera dei pregiudizi. Le persone erano stanche di essere giudicate.
Cathy è molto precisa nel descriverlo e quando sente di dover aggiungere qualcosa, lo fa perché è suo dovere mantenere inalterato il ricordo. Più tardi nell’incontro emergerà la personalità di uno scrittore timido e riservato, divertente ma poco concentrato su se stesso. Sin da piccolo aveva imparato a vivere una vita interiore piena di vitalità, ma non si lamentò mai di quello che poteva sembrare un limite esteriore. Ringraziava il periodo della crescita perché era bravo a saper ascoltare e l’aveva reso uno splendido amico.
Anche nella finzione non giudicava i suoi personaggi ma li conosceva intimamente. In fondo era un amante della natura umana. Impiegava anni prima di scrivere un libro perché raccoglieva i tratti di chi doveva farne parte attraverso note e appunti. A volte era lì che scriveva di alcuni avvenimenti e persone della realtà, poi si fermava e diceva: “Che pettegolo che sono”.
Nei periodi in cui scriveva non leggeva altri autori – anche se adorava Faulkner e Cechov – perché non voleva sentire una competizione insopportabile. In fondo anche Cathy poteva intervenire solo nei refusi dei testi che batteva al computer per lui. Solo una volta disse che un personaggio non era male e Kent rimase chiuso in camera da letto come se non ne sarebbe più uscito.
Ma c’è un confine, le chiedo, tra la realtà e la finzione e quanto l’una ha influenzato l’altra? Cathy si rivolge ancora una volta ai personaggi che Kent inventava. Prendeva spunto dalla realtà, i personaggi erano legati a un’idea e arrivavano a lui attraverso qualche luogo dell’emozione. Ma provenivano, più in generale, dal suo essere Haruf, dal carpire una vita fatta di semplice ascolto.
Autore: Kent Haruf
Traduzione: Fabio Cremonesi
Editore: NN Editore
Anno: 2017
Pagine: 176
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