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Furore di John Steinbeck

Avete mai traslocato? Avete mai provato a riassumere la vostra vita in pacchi, cartoni e buste?

Ultimamente ho lasciato un luogo che ho chiamato “casa” per circa tre anni. La carrozzeria delle macchina si avvicinava al suolo e gravava sulle ruote man mano che caricavo la mia roba. Dai finestrini posteriori era impossibile vedere qualcosa: vi si annidavano buste e valige incastrate come mattoni di un muro realizzato da poco.

È la cosa più vicina alla vicenda dei Joad che sia riuscita a pensare.

Secondo te il cagnolino di porcellana ce lo possiamo portare? Era di Zia Sadie, l’aveva preso alla St. Louis Fair. Vedi? C’è scritto proprio qui. No, mi sa che non ce lo possiamo portare. Questa lettera l’ha scritta mio fratello il giorno prima di morire. Questo è un cappello come si usava un tempo. Le piume…non c’è mai stata occasione di usarle. No, non c’è spazio. Come facciamo a vivere senza le nostre vite? Come sapremo di essere noi senza il nostro passato? No. Tocca lasciarlo qui. Bruciarlo.

Questo è stato il mio – primo – incontro con John Steinbeck e con un libro che incarna la definizione di classico. Perché non si tratta soltanto dell’esodo della famiglia Joad, sfrattata e cacciata dall’industrializzazione dell’agricoltura, si tratta di affrontare, attualizzandoli universalmente, concetti sui quali si fonda la vita quotidiana di ognuno: la famiglia, la casa, il lavoro, la libertà, l’essere umano.

Trattandosi di temi all’ordine del giorno è inevitabile che, ora come allora, entrino a far parte dei programmi politici. Quando l’opera fu pubblicata ’39, gli Stati Uniti erano una terra di forti contraddizioni. Neanche Roosevelt con le conversazioni del caminetto e l’annuncio del new deal, il nuovo corso della politica economica, riuscì a metterle a tacere. Non erano bastati i sussidi e l’assistenza all’agricoltura per fermare l’inevitabile: l’avvento delle macchine e delle grandi produzioni.

Le Hoovervilles si moltiplicavano come durante la crisi del ’29 e i poveri Okie migravano al sud, in California, spogliati delle loro vite, con solo la promessa di un lavoro.

La denuncia non poteva aspettare e Steinbeck, in soli cinque mesi, compose Furore (The Grapes of Wrath). Non lo definirei un reportage a spingerlo non era l’indole del giornalista, ma un’urgenza di verità e, aggiungerei citando l’introduzione di Luigi Sampietro, «di come la giustizia sia cosa diversa dalla legge».

Scena dal film The Grapes of Warth (1940), diretto da John Ford con Henry Fonda e Jane Darwell

In poco tempo parole come Pa’ e Ma’ diventeranno familiari, insieme ai dialoghi dei personaggi, senza mezzi termini, mai complessi, ma sempre carichi di qualche verità che neanche un saggio avrebbe potuto esprimere meglio. Il tutto in perfetta coerenza con i protagonisti: i Joad, figli primitivi della terra. Bisogna specificare: “primitivo” non come “barbaro”, ma come ingenuo alla scoperta del mondo.

La storia dei Joad è la storia dell’essere umano: una personale teoria messa in piedi dalla prosa di Steinbeck. Non si tratta di un uomo inteso come un insieme d’istinti, primo fra tutti quello di conservazione, ma di un uomo la cui spinta intima e innata è costituita dalla solidarietà. La famiglia Joad ne è l’esempio, perché non si sa come ha compreso che l’uomo, da solo, non va da nessuna parte.

Incontreranno quelli come loro, altri simili e poi ci sono altri tipi di uomini che forse non possono essere definiti tali:

Quell’uomo che è più della sua struttura chimica, che cammina sulla terra, che fa deviare la punta dell’aratro per evitare una pietra, che preme sulle stegole per scavalcare un rialzo, che s’inginocchia tra i solchi per consumare il pasto; quell’uomo che è più dei suoi elementi, conosce la terra che è più della sua analisi. Ma l’uomo-macchina, che guida un trattore morto sulla terra che non conosce né ama, capisce solo la chimica; e disprezza la terra insieme a se stesso. Quando le porte di lamiera ondulata sono chiuse, lui va a casa, e la sua casa non è la terra.

È la natura un’altra protagonista del romanzo. Tra lei e l’uomojsteinbeck s’instaura un rapporto di simbiosi e, se i dialoghi sono semplici e privi di sofisticazioni linguistiche, le metafore non sono mai abbastanza per le splendide descrizioni degli ambienti.

Una grossa goccia di sole rosso indugiò sull’orizzonte, poi cadde e scomparve, e il cielo era luminoso nel punto dov’era scomparsa, e una nuvola lacera, come uno straccio insanguinato, pendeva sopra il punto dov’era scomparsa. E il crepuscolo cominciò a invadere il cielo da oriente, e il buio cominciò a invadere la terra da oriente.

I Joad macinano chilometri sulla Route 66 e il loro sguardo dovrà lasciare la terra dove sono nati, culla di vita – le terre rosse e screpolate dell’Oklahoma –, dovrà abituarsi ad ambienti ostili – il deserto rovente, le catene montuose – fino ad arrivare ai campi rigogliosi della California. Anche il loro rapporto con la terra è cambiato: pura convenienza e non più scambio reciproco. Proprio come il ciclo naturale che dapprima offre la terra fertile, la secca carezzandola con il sole e la nutre con la pioggia, gli avvenimenti dei Joad appartengono a una nuova fase per l’uomo. Una metamorfosi che Steinbeck è riuscito a cogliere all’apice del suo disastroso svolgimento tanto che l’anno successivo ricevette il National Book Award e il Premio Pulitzer.

Il viaggio dei Joad ricostruito da National Geographic
Il viaggio dei Joad ricostruito da National Geographic

Ai capitoli che narrano il viaggio dei protagonisti, si alternano quelli che descrivono il panorama: tolta la lente d’ingrandimento dai Joad ci rendiamo conto che Steinbeck sta raccontando più storie contemporaneamente. Anche la scrittura cambia: diventa perentoria e apodittica, priva di retorica, senza perdere il ritmo e l’armonia con le altre parti del romanzo. Potrà sembrare fin troppo diretta contravvenendo al “mostrare senza dire”, ma per Steinbeck possiamo fare un’eccezione. È proprio il suo “mostrare mostrando” a condurci nello sdegno a cui ha attinto come fonte d’ispirazione.

La recensione potrebbe continuare parlando di come una donna del sud diventa una «roccaforte inespugnabile», filtro di tutte le emozioni della famiglia; potrei parlare di un ex santone che non ha mai abbandonato la religione e ne ricerca il senso, più credente di prima, ma a che servirebbe se potete scoprirlo da voi?

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0 commenti

  1. Romanzo grandioso. Ti consiglio, se già non l’avessi visto, anche la versione cinematografica, con la regia di John Ford. Non è fedelissima al romanzo, ma a mio parere (e non solo mio, credo) è un film riuscito. 🙂

    1. In effetti mi incuriosisce! Già ce l’ho pronto sul pc! 🙂

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