Alla fine glielo chiesi io. «Scusa, Jackie, se non è una domanda troppo personale, mi spieghi perché hai cambiato chiesa?»
«Oh, be’, mia figlia ha cominciato ad andare a scuola, e la chiesa episcopale è proprio sulla strada. a volte l’accompagno e poi mi fermo a scambiare due ciacchiere con qualche signora della congregazione. Sai com’è, mi torna più comodo.»
“Compra un libro tra le 18:30 e le 20:00. Noi ti regaliamo un aperitivo”. Vicino alla cassetta di legno del bookcrossing e al banchetto che anticipa le pile di libri all’interno, questo annuncio si vede a malapena. Per me, che non l’ho visto, lo legge una ragazza appena uscita dall’università, il maglioncino leggero e la fronte stanca. Il Colibrì, in via Laghetto a Milano, ha riassunto in tre piccoli locali, il bar, la libreria e la sala con divani e tavolini, due pulsioni della clientela vicina: accogliere con una vasta scelta di pubblicazioni in poco spazio e nutrire con aperitivi. Oggi tra baffi alla Dalì, mocassini, borse sfilacciate e zaini, c’è qualcuno che indossa la maglia di Saint John Coltrane African Orthodox Church: due sax soprano si sovrappongono a formare una croce bianca e frastagliata su sfondo nero. A indossarla è Silvia Pareschi, instancabile traduttrice, tra i tanti, di Jonathan Franzen, Don DeLillo, Zadie Smith, Junot Diàz, venuta a presentare la sua prima opera: I Jeans di Bruce Springsteen.
È proprio con sottofondo di Bruce che Federica Manzon, editor della narrativa straniera per Mondadori e redattrice di «Nuovi Argomenti», la affianca nella presentazione. Le chiede se lei, abituata a essere sempre tra le parole, ha iniziato a scrivere sentendosi una reporter o una cowgirl. Infatti, è difficile descrivere una raccolta di racconti che si muovono continuamente tra il reportage e i ricordi autobiografici e che si propongono di studiare la cultura americana dall’interno, con uno sguardo acuto e insospettito dai facili entusiasmi.
Pensiamo a San Francisco, la città dove Silvia Pareschi vive e lavora per metà dell’anno, ben lontana dall’essere la Frisco frivola di Kerouac e degli hippies, ma sempre pronta ad accogliere mode e tendenze che si propagheranno a est. Il vortice innovativo della Silicon Valley ha innescato una profonda gentrificazione, a stento quantificabile per la velocità della diffusione dei techies (gli adepti delle grandi aziende), che ha trasformato interi quartieri della working class e ha lasciato numerose zone all’invisibilità e all’abbandono.
Gli effetti dei ritmi di una vita veloce e di isole su isole nella baia di San Francisco si hanno per esempio nel racconto Dimmi come mangi, cronaca di un ordine da Eatsa dove si usa lo smartphone o il tablet del locale e si ritirerà il cibo da uno sportello anonimo, eliminando tutto il romanticismo di una cucina umana a pieno regime. In Misofonia la spersonalizzazione delle case coinvolte in un mercato immobiliare dai prezzi gonfiati, ormai altissimi, che traccia lo squilibrio tra la classe media, a dir poco estinta e povera, e i ricchi, ricchissimi, gli invisibili manovratori dell’economia della città.
Nel frattempo, altri due suoi amici erano stati sfrattati. Ormai chiunque abitasse in un appartamento ad affitto controllato si sentiva sul collo il fiato dei padroni di casa, che avevano scoperto certe scappatoie per liberarsi dei vecchi inquilini e sostituirli con gente nuova, più lustra e moderna, che sganciava senza battere ciglio una somma quattro o cinque volte più sostanziosa del pidocchioso canone teoricamente imposto dalla legge. Il fatto che la sua padrona di casa non le avesse ancora liberato un branco di tarantole assassine nell’appartamento le regalava una piccola speranza della bontà del genere umano.
La sperimentazione è uno dei campi più interessanti dell’autofiction la cui definizione si plasma sull’istinto di chi scrive mescolando finzione e memoir. Lo stile non è definito con precisione e si adatta alle esigenze del narratore. Ne I jeans di Bruce Springsteen la terza persona unisce situazioni quotidiane a verità universali come l’utilità e il trauma di Lavanderia a gettoni, o l’avanguardia tutta West Coast per il Ganja Yoga. La prima persona, invece, dà l’impronta ironica e divulgativa nella maggior parte dei reportage che iniziano dal ricordo e sfociano in ritratti completi con descrizioni, nomi e date dei luoghi visitati. È in questi pezzi che l’America variopinta si dimostra nelle sue sfumature più dissonanti e genuine. C’è il misticismo incontrollato della ricerca di una religione ne La scelta della religione, il viaggio e lo studio sociologico e storico nelle religioni negli Stati Uniti, diviso in due sezioni che prendono in considerazione l’East Coast e la West Coast; c’è Il Palazzo del Porno con le indagini sul sadomaso in un palazzone di San Francisco; c’è il sottofondo oscuro della sanità che incombe su chiunque non abbia lauti conti in banca come in Puma e ne Il dentista ai tempi del Super Bowl; e, infine, una storia vera e non autobiografica su un ritorno al far west e un’indole pericolosamente americana della giustizia con le proprie forze durante l’uragano Katrina del 2005, come narrato nell’omonimo racconto.
«Abbiamo più di cinquemila pallottole» disse a Lilian l’adolescente Tessy, anche lei elegante con lo scamiciato di velluto nero, la camicetta bianca e le ballerine di vernice nera. Per un attimo Lilian pensò che tutta la famiglia Broussard era vestita di bianco e nero. Tessy le sorrise, mettendo in mostra l’apparecchio per i denti. «Se qualche stronzo si avvicina è fottuto.»
Alcuni esempi di autofiction nella sua estrema varietà di stile potrebbero essere le criptiche narrazioni di Grace Paley con il minimalismo memore di Carver, o la scrittura secca e singhiozzante di Joan Didion, fino al recupero delle ultime pubblicazioni italiane come La donna che scriveva racconti (traduzione di Federica Aceto, Bollati Boringhieri, 2016) di Lucia Berlin che con la Pareschi condivide uno dei titoli della raccolta (La lavanderia a gettoni di Angel) creando un richiamo che si estende negli anni e collega, in una coscienza comune, due autrici con il non luogo crogiolo di storie. Ma i pacifisti citati dalla Pareschi potrebbero essere gli stessi che rimandano all’umorismo di Lorrie Moore in Scorticare nella raccolta Bark e le note a piè pagina del Palazzo del porno strizzano l’occhio agli Oscar del cinema porno di cui scrive David Foster Wallace in Considera l’aragosta (traduzione di Adelaide Cioni e Matteo Colombo, Einaudi, 2006). La conoscenza sterminata dei maestri portava con sé il rischio di annullamento e il timore reverenziale, l’ha ammesso la stessa autrice nell’intervista che mi ha concesso per Ultima Pagina (dove, tra le altre cose, spiega che cos’è la traduzione e di come si è avvicinata alla cultura americana). L’ostacolo è stato ampiamente superato con una scrittura che omaggia gli autori stimati creando del nuovo.
A rendere il genere speciale nella produzione letteraria attuale è la libertà con cui è possibile unire eventi reali e autobiografici con la finzione svincolandosi dai limiti della definizione di un genere letterario vero e proprio. La libertà sterminata di un descrivere indiscriminato pone lo scrittore nel dubbio di scegliere cosa vedere e come vederlo, studiarlo da lontano e addentrarcisi, cosa che Silvia Pareschi è riuscita a equilibrare arricchendo di dettagli o lasciandoli volutamente nascosti. I jeans di Bruce Springsteen è il racconto che chiude la raccolta con il ricordo di un viaggio, il calore tutto italiano del broccolino e di una gita nei luoghi di Springsteen fino a un sarto che regala alla protagonista dei misteriosi jeans. È proprio così che tocca rimanere al lettore: in un’istantanea tra la credulità e la finzione, tra l’estasi di una seduta alla chiesa di John Coltrane e il fascino di una promessa che rimarrà un mistero per tutta la vita.
Autore: Silvia Pareschi
Editore: Giunti
Anno: 2016
Pagine:192
Acquista su Amazon:
P.S.: il blog di Silvia Pareschi
Parlando di cose serie: questo è Bruce Springsteen.