Case infestate in letteratura. Quelle case nel bosco è una rubrica, nelle settimane che precedono Halloween, dove si leggeranno romanzi e racconti a tema.
La fabbrica in rovina, alta tre piani, spiccava solitaria in un paesaggio altrimenti anonimo. Benché a suo modo fosse imponente sembrava occupare un angolo modesto nel vuoto grigio del circondario, la sua presenza null’altro che un accento su un orizzonte desolato. Non c’erano strade che portassero alla fabbrica, né tracce di strade che vi avessero portato a un certo punto di un passato lontano. E se pure una strada ci fosse stata, percorrerla fino ai piedi di una delle quattro mura di mattoni rossi della fabbrica ne avrebbe sancito l’inutilità anche all’epoca in cui la struttura era pienamente attiva. Il motivo è semplice: la fabbrica non aveva porte; non c’erano piattaforme di carico né entrate che permettessero di penetrare oltre le mura esterne della struttura, la quale era in mattoni su tutti e quattro i lati senza nemmeno una finestra al di sotto del secondo piano. Il fenomeno di una grossa fabbrica così isolata dal mondo esterno era per me motivo di estrema fascinazione. Fu quasi con rammarico che infine venni a sapere che la fabbrica aveva un accesso sotterraneo. Ma com’è ovvio, questa rivelazione andò a sua volta a istigare il mio senso di stupore più sincero e degenerato, la mia fascinazione guasta.
(Thomas Ligotti, tratto da Torre Rossa in Teatro Grottesco, traduzione di Luca Fusari, Il Saggiatore, 2015)
Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola.
(Shirley Jackson, L’incubo di Hill House, traduzione di Monica Pareschi, Adelphi, 2013)
Oltre a comporsi di sguardi ostili e maledizioni intrinseche che contagiano proprietari e muri, l’architettura dell’orrore ha la particolarità di suscitare un sentimento sinistro che si tramuta in visione, attraverso la semplice descrizione. È probabile che la stessa idea di edificio – e di ogni componente inanimato che diventa oggetto del terrore -, attraversi lo scetticismo di qualunque lettore. La capacità di far germogliare il terrore dalla superficie è uno degli aspetti più intriganti della scrittura di molti maestri dell’orrore. Ho voluto proporre due incipit che sembrano richiamarsi a distanza di anni e omaggiarsi vicendevolmente, attraverso la descrizione di un’immobilità atavica ed eterna, inevitabile per l’uomo che si trova davanti costruzioni così ostili.
Vorrei concentrarmi su Torre Rossa e notare come mai nel racconto non si fa riferimento alla presenza umana. Più che scriverla Ligotti mostra l’assenza attraverso la storia di una struttura e della sua vita inanimata. Proprio qui è il paradosso inaccettabile: una vita che non dovrebbe esistere sembra respirare e assorbire linfa vitale da se stessa producendo un presagio di morte. L’orrore della vita è il messaggio sotteso a Teatro Grottesco, la raccolta di racconti che si divide in Disordini, Deformazioni, I guasti e i malati, tre sezioni attraversate da indizi che collegano i racconti. La fabbrica di cui si parla potrebbe essere la stessa de Il nostro supervisore temporaneo, in cui alcuni operai sono spaventati dalla presenza di un capo invisibile e inizieranno a lavorare senza sosta a causa di un impiegato particolarmente stacanovista.
In poco tempo in Teatro Grottesco si costituirà l’Arkham di Ligotti, ma in modo diverso rispetto a Lovecraft con cui lo scrittore americano contemporaneo condivide alcune similitudini. Laddove Lovecraft era prolisso, Ligotti fa altrettanto ma i ghirigori della scrittura, che si lasciano andare alle descrizioni, vengono declinati in modo diverso. Laddove Lovecraft proseguiva fino a una conclusione, Ligotti dipana la narrazione partendo dal singolo ed espandendolo in una nube di nebbia cosmica verso una continuazione.
Come fossimo personaggi di un horror, infatti, partiamo dal presupposto fondamentale che il mondo, come noi, sia qualcosa di naturale. A un certo punto però, arriva la consapevolezza che nell’esistenza c’è qualcosa di strano, che viola la concezione naturalistica della vita. Nelle storie dell’orrore questa manifestazione ha varie forme: fantasmi, vampiri, creature venute da altre dimensioni, oggetti inanimati che prendono vita e via dicendo. Naturalmente, la paura di queste cose ci porta a negare la loro esistenza.
Così affermava Thomas Ligotti in un’intervista su Prismomag per spiegare che La cospirazione contro la razza umana (edito da Il Saggiatore) era in qualche modo il ritratto fedele di una verità universale: il non sapere è una forma di oblio che ha del soprannaturale.
L’Orrore Cosmico, tanto caro a Lovecraft, superava la trama, superava gli intenti dell’autore per rivolgersi al risultato che doveva essere l’apice di un’atmosfera che andava oltre le spiegazioni scientifiche e razionali di chi era testimone. Ligotti, meritevole erede dell’orrore lovecraftiano, lo declina in modo diverso: se in Lovecraft si creava un vuoto spaziale che soggiaceva alla scoperta di Cthulhu, un male inevitabile, in Ligotti il male si lega alla materialità. Gli uomini sono presi da dolori fisici, attacchi intestinali, malattie propagate dal Teatro Grottesco che rimarrà sempre celato al lettore. Insomma, il male esiste e la letteratura di Ligotti lo ricorda con la stessa sensazione di straniamento che prende davanti a un evento improvviso. E, come la fabbrica misteriosa, è una costante onnipresente e inevitabile nella vita umana.
Autore: Thomas Ligotti
Traduzione: Luca Fusari
Editore: il Saggiatore
Anno: 2015
Pagine: 281
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