Per quanto è indubbio che la questione che ho in mente ora sia che, se tante cose esistono solo nella mia testa, una volta che mi siedo qui iniziano a esistere anche su queste pagine.
Lo scrive Kate, la protagonista de L’amante di Wittgenstein di David Markson. In un certo modo mi ha ricordato la Therese di Francesco D’Isa, protagonista dell’ultima uscita Tunué. Non che le due siano sovrapponibili in due romanzi analoghi, ma restano le voci principali di storie che hanno nell’indagine della protagonista l’importanza centrale.
Therese ha scelto di rinchiudersi in una stanza d’albergo, ha mentito alla famiglia dicendo di intraprendere un viaggio e comunica con l’esterno grazie alle lettere che invia alla sorella. La presenza di ricordi comuni e racconti del passato diventa una trattazione più ampia, corredata da spiegazioni matematiche, paradossi filosofici, immagini, collage e disegni. Il diorama testuale e iconico composto da Therese stipula un rapporto a due direzioni che rende indispensabile l’uno all’altro. Anche quando le immagini non sono utili a chiarire il testo, la loro presenza simula uno squarcio sensitivo o un collegamento (come le illustrazioni dei tessuti degli abiti di Therese). Intruse a margine saranno le risposte della sorella, piccole frasi dal tono scettico e contrariato che fanno da contrappunto alle indagini di Therese. Ogni evento genera una riflessione che dall’interiorità non risolta della ragazza si estenderà al significato dell’esistenza.
Ed è qui che le strade della stanza di Therese e dell’Amante si dividono. Perché se Kate è, come sembra, l’ultimo essere vivente rimasto sulla terra il suo compito attraverso le parole è un esercizio di esistenza anche se il linguaggio è prodotto da fatti ed è soggetto a un margine di indeterminatezza. Il ragionamento di Therese è più lineare, non si serve di digressioni confusionarie e flussi di coscienza, e sembra paradossalmente più libero. Ed è curioso come entrambi i libri abbiano riferimenti al pensiero filosofico in modo diverso: Kate rispondeva all’applicazione di una teoria, Therese sceglie dal punto di vista linguistico e visivo.
Anch’io sono figlia di una catena illimitata di negazioni e non potrò mai rimanere davvero sola, neanche chiudendomi in una stanza, eppure è proprio grazie al tentativo di tagliare ogni relazione che mi sono accorta di quanto siano indispensabili – la mia solitudine non è una fuga, è un metodo.
(Francesco D’Isa, La stanza di Therese, Tunué, 2017, p. 77)
La sua prospettiva è quella di un’eremita e non di un’emarginata. Tra le due figure c’è una differenza sostanziale che in Therese sta nella scelta non di essere esclusa, ma di escludersi per il bisogno di definire un mondo in funzione di una non ben definita identità. Eppure la consapevolezza della diversità non la lascia adagiata nell’autocommiserazione, ma la spinge a una fenomenologia della coscienza. Constata l’esistenza e l’evoluzione di quest’ultima dapprima notando i confini allargati dell’interiorità – il dolore limitato del fisico e quello più profondo e sconosciuto del sentimento – e poi rapportandola al mondo e a come questo si coniuga in un’unione per differenza.
Forse i mondi assurdi sono più lontani da me di quanto non lo sia dio, perché dio (o meglio l’infinito) è vicino alle regole del mio mondo, anzi le fonda, dunque mi è più facile crederci. In effetti, non tutte le divergenze sono uguali. Se prendo due colori opposti, come il bianco e il nero, è evidente che il bianco è la cosa più dissimile che ci sia dal nero. Le mie mani, la mia penna o l’asciugamano sono più diversi dal nero di quanto non lo sia il bianco. Persino il rosso lo è, perché il bianco e il nero non solo sono entrambi colori, ma sono anche opposti e l’opposizione li accomuna prima ancora di dividerli; per il bianco, il nero è la più simile delle differenze. Anche se esiste tutto, dunque, alcune cose sono più prossime di altre.
(Francesco D’Isa, La stanza di Therese, Tunué, 2017, p. 98)
La frammentazione dell’indagine di Therese non farà che aggiungere incertezza al raggiungimento di una risposta sull’idea di Dio e dell’infinito. Eppure l’inquietudine che la coglie nell’allontanarsi dalla vita reale, la confina in quello spazio tanto tipico della contemporaneità: la stanza, luogo della dipendenza e della reclusione. Il libro di D’Isa, oltre che per la forma, stupisce perché riesce a rendere discorsiva un’indagine identitaria e filosofica insieme. Poco importa se la risposta è che il «paradiso è comunque una prigione: se sia la ragione che la sua negazione mi portano alle stesse conclusioni, sono costretta a credere nell’assurdo», perché incoraggia solo un’altra splendida indagine dell’indeterminazione.
Titolo: La stanza di Therese
Autore: Francesco D’Isa
Editore: Tunué
Anno: 2017
Pagine: 118
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Grazie! Considero D’Isa un grande talento italiano, e questa recensione sembra confermarlo.