Geografie letterarie viaggia tra i rapporti di influenza che spesso s’instaurano non solo tra autore e opera ma anche tra autore e luogo in cui vive.
È caduto “un pezzo di cielo”. Il più delle volte Stephen King si riferirà così all’attentato dell’11 settembre al World Trade Center nel racconto Le cose che hanno lasciato indietro, contenuto nella raccolta Al crepuscolo. Un uomo è tormentato dagli oggetti di alcune vittime: cerca di disfarsene ma puntualmente le ritrova nello stesso posto, nella sua casa, che gli bisbigliano urla e incubi di quel giorno.
Tirai fuori la bambola odiando la scia di sporco che si lasciò dietro. Una cosa che lascia una scia è una cosa reale, una cosa con un peso. Non c’è scampo.
(Stephen King, Al crepuscolo, traduzione di Tullio Dobner, Sperling & Kupfer, 2013)
Dopo il crollo, il fumo che aveva oscurato Lower Manhattan si è diradato lasciando un vuoto paradossale perché pieno di macerie e vuoto di vite polverizzate. Oggi, lì dove le torri erano posizionate, nascono due enormi fontane ai cui lati ci sono pannelli in bronzo sui quali sono incisi i nomi delle vittime degli attentati del 2001 e del 1993. L’acqua che dai lati precipita sul fondo, si raccoglie in un vuoto nero e profondo. Un’opera enorme – sono le cascate costruite dall’uomo più grandi del Nord America – che ha il duro compito di riassumere su di sé una rappresentazione che è simbolo – commemorazione e ricordo – e materia insieme – le vite che animavano un ammasso inanimato di lamiere.
Tra le due fontane è situato il 9/11 Memorial, una narrazione più che un museo perché è il tentativo di rendere tangibile un punto fermo del tempo: la distruzione di una parte dell’identità americana e l’anno zero della rinascita. Si racconta il prima e dopo gli attacchi, si scende nelle profondità della Foundation Hall che contiene un muro e l’Ultima colonna sopravvissuti, si leggono le storie delle vittime.
Usciti dal Memorial basta proseguire lungo Liberty Street Walkway e, subito dopo l’incrocio con Greenwich Street, c’è il 9/11 Tribute Center costituito da sopravvissuti all’attacco, da parenti di vittime o semplici cittadini volontari che organizzano guide raccontando le loro storie.
Se dovessi dare un nome alla miriade di testimonianze e racconti sceglierei Rendering the Unthinkable, rendere l’impensabile, l’inimmaginabile, lo stesso nome di una delle ultime mostre organizzate dal Memorial dove 13 artisti newyorchesi hanno reimmaginato il giorno del disastro. Ho voluto raccogliere l’inimmaginabile nella letteratura americana da parte di scrittori che quel giorno non l’hanno vissuto, ma sono riusciti a mettere ordine in un marasma di fumo, detriti ed eventi mediatici che pensavano di poter essere commemorazione.
Oggetti di Jonathan Safran Foer
Prima dell’11 settembre la mappa emozionale di Oskar Schell era chiara, terribilmente razionale e acuta per un bambino della sua età. Ama Stephen Hawking, non perde l’occasione di inviargli lettere per chiedere di lavorare con lui, con il padre ha un rapporto profondo e sincero, lo vede correggere i refusi del New Tork Times e si fa raccontare la leggenda del sesto distretto della Grande Mela.
Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer è la storia di come la data di nascita di Oskar nel mondo degli adulti viene anticipata. Un giorno torna da scuola e trova alcuni messaggi del padre in segreteria: dice di non preoccuparsi e di stare bene, che troverà una soluzione lì nella torre dove rimarrà intrappolato. Il giorno ad alta velocità che New York sta vivendo fuori, rallenta e si ferma con l’attentato.
Lasciato a elaborare un lutto troppo pesante, Oskar capisce e osserva il mondo intorno con un approccio da scienziato che studia attentamente i sentimenti più che viverli. Nel progressivo avvolgersi in se stesso, nell’armadio trova una chiave all’interno di una busta con su scritto Black: lo interpreta come un ultimo messaggio del padre e inaugura una ricerca nella grande metropoli per trovare la serratura.
Ho aperto la cartina sul tavolo da pranzo, fermando gli angoli con dei bicchieri di succo di pomodoro. I puntini là dove avevo trovato le cose che sembravano le stelle dell’universo. Li ho uniti insieme come fanno gli astrologi, e se strizzavo gli occhi tipo cinese assomigliavano un po’ alla parola «fragile». Fragile. Che cosa era fragile? Central Park? La natura? Le cose che trovavo erano fragili?……
(Jonathan Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino, traduzione di Massimo Bocchiola, Guanda, 2005)
New York abbandona la mitologia – i significati e le identità – dei suoi quartieri e ne costruisce una unica stringendosi intorno a Oskar e alla sua disperata ricerca di significato. Al bambino corrisponde una scrittura estremamente descrittiva, un registrare continuo degli eventi che lo circondano, indizi di un’inquietudine interiore e di una sincerità invisibile al mondo degli adulti. Il continuo catalogare ha come risultato la collezione di oggetti ritrovati a Central Park, con la cui mappa cerca di intravedere un messaggio del padre, o il quaderno delle cose che gli sono successe, raccolta di immagini, appunti e foto delle sue nuove scoperte – offerte graficamente anche al lettore.
Molto forte, incredibilmente vicino incrocia altre storie che vanno al ritmo di diversi stili. Ci sono i diari dei nonni paterni con storie di una vecchia Europa devastata dalla guerra che, con gli eventi dell’11 settembre, compone un unico romanzo corale. Sulla linea del tempo si collegano le vittime delle tragedie per ricongiungerle nell’unico grande conflitto dell’uomo contro i suoi simili. È il tempo l’altro grande spettro del romanzo, diverso dal tempo che Oskar si prepara a vivere e rivolto a un passato simile al battito di ciglia dei rimpianti.
Da bambina la mia vita era una musica che suonava sempre più forte. Tutto mi emozionava. Un cane che seguiva uno sconosciuto. Era una sensazione così intensa. Un calendario aperto sul mese sbagliato. Avrei potuto piangerci sopra. E piangevo. […] Ho passato la mia vita imparando a sentire di meno. Sento di meno ogni giorno.
È la vecchiaia? O qualcosa di peggio?
Non ci si può difendere dalla tristezza senza difendersi dalla felicità.
(Jonathan Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino, traduzione di Massimo Bocchiola, Guanda, 2005)
Per la nonna di Oskar il tempo è la memoria del passato che cerca continuamente di ricordare; per la vita di Thomas, il nonno, è fame di cerchi che non si sono mai chiusi come la gravidanza di Anna, la morte del figlio Thomas e l’affetto che non arriverà mai all’amore per la donna che l’ha scelto. Anche se sa che le risposte possono essere solo SI o NO, le ha tatuate sui palmi delle mani, sente di essere in bilico tra il Niente e il Qualcosa, luoghi astratti tra i quali oscilleranno anche le avventure del bambino.
La storia di Foer è l’esempio di una commemorazione collettiva che mette in comunione un particolare come Oskar con il panorama della Storia vera e propria. Il finale, se per Oskar arriva, per il resto è un ciclo che si completa e che, per adesso, si ripete continuamente nella storia dell’uomo.
Autore: Jonathan Safran Foer
Traduzione: Massimo Bocchiola
Editore: Guanda
Anno: 2005
Pagine: 351
Prezzo: € 18,50
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Il corpo della fede di Don DeLillo
La letteratura di New York con l’11 settembre è ancorata a luoghi fisici e acquista significato grazie a oggetti. Per quanto inanimati sono gli unici superstiti carichi dell’aura di chi li possedeva.
Anche ne L’uomo che cade di Don DeLillo una delle storie inizia da una valigetta rossa passata a Keith mentre fugge da una torre che è stata colpita. A differenza di Molto forte, incredibilmente vicino, la cosa appartiene a una donna ancora viva e genera una storia fatta di trauma, condivisione, straniamento e di difficoltà a metabolizzare l’accaduto anche da chi non l’ha vissuto.
Dal giorno dell’attentato quando Keith si presenta a casa ricoperto di polvere e in stato di shock, lui e Lianne tornano insieme, ma devono ricordare come impiegare il tempo nella vita coniugale: lui rallenta e vive il cadenzare dei minuti; lei sospende il tempo dell’attentato e guarda con terrore all’uomo che cade, l’acrobata che si serve di funi per ricreare la caduta delle persone dalle torri. Invece di unire, la tragedia divide e la famiglia entra in un’impasse come se due perfetti sconosciuti fossero stati promessi l’uno all’altro, mentre i bambini assomigliano a Oskar e vivono il trauma a modo loro, ammutolendosi e inventando storie. Keith verrà coinvolto in una relazione con l’altra sopravvissuta. Lianne si affiderà alla scrittura creativa durante il volontariato con gli anziani.
Carmen G. voleva sapere se tutto ciò che ci capita deve per forza far parte del disegno di Dio.
Sono vicina a Dio più che mai. Lo sono, voglio esserlo, devo esserlo.
Eugene A., in una delle sue rare apparizioni, scrisse che Dio sa cose che noi non sappiamo.
Cenere e ossa. Ecco cosa resta del disegno di Dio. Ma quando le torri sono crollate, scrisse Omar. Continuo a sentire dire che si buttavano tenendosi per mano.
Ma se è stato Dio a far succedere questa cosa degli areoplani, allora anche stamattina quando mi sono tagliato un dito mentre affettavo il pane è stato lui?
(Don DeLillo, L’uomo che cade, traduzione di Matteo Colombo, Einaudi, 2008, pp. 62-64)
Il paradosso dell’immaterialità dei corpi è l’essere la conclusione della vita per i cristiani. Eppure per Lianne, e la sua prospettiva inconsapevolmente materialista, non aver visto i corpi significa non avere esperienza se non per immagini. Il trauma lo sperimenta con l’uomo che cade – rappresentazione sensoriale e concreta della tragedia – e con la malattia della madre – un lento deteriorare della materia che si oppone alla sopravvivenza della mente.
Il corpo è manifestazione, mentre per Hammad e i compagni che pianificano l’attentato il corpo è strumento. A loro sono riservate brevissime parti, poco approfondite, che si pongono come l’altra faccia della medaglia: insieme ai pensieri di Lianne sono due estremi del considerare la vita terrena che hanno poco a che fare con la spiritualità.
I personaggi di DeLillo, così male assortiti, risultano essere il migliore esempio della confusione che segue l’attentato. Brevi paragrafi saltano da un personaggio all’altro, proprio come ha scelto di fare Foer con la divisione in capitoli, e questo consente di raccontate più storie da diversi punti di vista. L’elaborazione dell’11 settembre diventa un racconto di solitudini, indaga sul significato della fede e su identità che non riuscirà mai a ricomporsi completamente.
Poi una sera tardi, al momento di svestirsi, infilò la testa in una maglietta verde pulita, e fu sudore l’odore che sentì, o forse una lieve traccia, ma non la puzza aspra delle cose mattutine. era semplicemente lei, il corpo all’infinito. Era il corpo e tutto ciò che comportava, dentro e fuori, identità e memoria e calore umano.
(Don DeLillo, L’uomo che cade, traduzione di Matteo Colombo, Einaudi, 2008, p.245)
Autore: Don DeLillo
Traduzione: Matteo Colombo
Editore: Einaudi
Anno: 2008
Pagine: 260
Prezzo: € 17,50
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ti segnalo questo vecchio post a proposito della percezione degli americani su chi è caduto dalle torri…
http://unaciliegiatiralaltra.blogspot.it/2011/09/2001.html
Non lo sapevo, grazie per il contributo.
[…] approccio che per New York andava dal romanzo L’uomo che cade di DeLillo a Molto forte, incredibilmente vicino di Foer e che per Katrina ha funzionato con […]