Geografie letterarie viaggia tra i rapporti di influenza che spesso s’instaurano non solo tra autore e opera ma anche tra autore e luogo in cui vive.
Le immagini dello skyline di New York, nella sua pacatezza notturna, si alternano a quelle delle strade affollate di giorno, in un tripudio di auto imbottigliate nel traffico, persone di tutte le età, di diverse etnie, che animano i marciapiedi in onde continue e scomposte.
E la voce balbettante di Woody Allen descrive le scene che stiamo guardando:
Capitolo primo: adorava New York, la idolatrava smisuratamente. Ma no, è meglio, la mitizzava smisuratamente, ecco. Per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero, e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin…
Entrare nello spirito di Manhattan, un film del 1979, significa entrare nell’intimità di una dichiarazione d’amore, di un amore imperfetto e per questo autentico. Tra i tanti, Allen sceglierà di presentarci con ironia degli pseudointellettuali che, se da una parte si fanno promotori della cultura alta, dall’altra saranno degli eterni immaturi.
Per chi non ha mai visto New York, Manhattan ne ritrae una piccola parte che, è possibile, non corrisponda all’immaginario creato intorno alla città, spesso privo di esperienza diretta e costruito, a sua volta, sull’immaginario di altri che l’hanno ritratta.
Perché la storia di Woody Allen, affascinante nelle notti passate ad aspettare l’alba su una panchina davanti al Queensboro Bridge o in giro in carrozza per Central Park, è solo una delle tante che si intrecciano nella Grande Mela.
Anche Paolo Cognetti nell’introduzione a New York Stories riconosce che la raccolta «è solo una delle tante possibili» e riecheggiare le parole di Colson Whitehead quando, nell’ultimo racconto, dice chiaramente che la sua New York non sarà mai la nostra New York.
I racconti di New York Stories sono difficili da classificare. Sono completi perché si muovono su una linea temporale che copre tutto il Novecento, la cui fine si allungherà fino al disastro delle torri gemelle. Ogni sezione è aperta da una piccola introduzione, mentre, all’inizio del libro, una cartina della città ci mostra la collocazione di ogni racconto.
Storia con la S maiuscola contro tante piccole storie che entrano ed escono da uno dei secoli in cui la città si divide in due, raggiungendo l’apice artistico e attraversando periodi di crisi. È proprio nella dualità manifesta della metropoli, in uno dei cuori pulsanti della Storia stessa, dove sembra che in ogni angolo ne venga generata dell’altra, avvertiamo un senso di non-finito.

Devi entrare a New York, la devi vivere e per chi, come me, non ha avuto occasione di visitarla, si porterà dietro alcune domande.
A chi appartiene New York?
«Lui era diventato un newyorchese», dalla veloce camminata e dal modo in cui l’amico è assorto nella sua vita, Fitzgerald comprende che la città l’ha cambiato profondamente. Nel ritmo degli anni ruggenti la città lo ingloba a tal punto da farlo assomigliare alle sue contraddizioni: tra la sua stanza in affitto nel Bronx, o l’appartamento a qualche ora dalla città, riservato alla vita in famiglia, e i pomeriggi passati al Plaza, le feste dell’Upper East, gli speakeasy al tempo del proibizionismo.
Non trovando un nucleo a cui aggrapparci, finimmo per diventare un piccolo nucleo per conto nostro, adattando gradualmente le nostre spinose personalità al panorama della New York dell’epoca. O meglio: New York si scordò di noi e ci permise di restare.
(Francis Scott Fitzgerald, La mia città perduta, traduzione di Vincenzo Latronico, p.14)
New York era chiunque reggesse la sua velocità, in un crescendo di «isteria» che fa dire allo scrittore come le feste erano più grandiose di quelle parigine, gli edifici più alti, i costumi più facili.
Man mano dai ricordi che Fitzgerald vuole riassaporare quasi con nostalgia, viene fuori un sentimento tra l’amore e l’odio, consapevole degli anni in cui si era a una sorta di autodistruzione.
Giunge il ’29 e il tonfo di Wall Street, che si ha l’illusione di attutire con la costruzione dell’Empire State Building. Perché si sa, gli americani non guardano mai in basso, non potrebbero abbracciare con lo sguardo l’intero grattacielo, puntano in alto. Salire lassù, per Fitzgerald, voleva dire vedere che New York non era l’universo. Aveva dei limiti.
I limiti di New York erano possibilità per i nuovi arrivati. Il sogno americano si avviava a diventare un topos letterario, e non solo, per generazioni di emigrati.
In una delle sezioni più interessanti del libro, intitolata La grande migrazione si susseguono le voci di chi ha adottato New York, nonostante i suoi difetti. La sensazione è che la città si divida nelle narrazioni così come è avvenuto nella realtà: il Bronx con l’emigrazione portoricana raccontata da Nicholasa Mohr – ancora inedita qui in Italia –, o Zora Neale Hurston, altra autrice inedita, affezionata alla sua Harlem e all’età del jazz.
Non potevano mancare gli italiani, di cui Mario Soldati ci offre un ritratto negli anni immediatamente successivi alla crisi. Appena sbarcato, con la stessa fame di tanti altri prima di lui, si addentra nel microcosmo italiano d’oltreoceano. Dietro l’orgoglio di dichiararsi American Citizens, l’apparente ripudio per una patria dove “si stava peggio” e la caratteristica commistione tra inglese e italiano, gli immigrati nascondono lo stesso bagaglio con cui erano partiti: voglia d’identità e di patria, anche se questo vuol dire mangiare un piatto di spaghetti al sugo seguito da un tacchino «dogmaticamente farcito e insipido». Tutta questa ostentata allegria assomiglia amaramente alla tristezza mascherata americana.
E poi, più tardi, Oriana Fallaci vede sbarcare Un marxista a New York che ne coglie l’essenza più recondita. Si muove di notte, quasi come un Thomas Wolfe che ha compreso che il ritratto migliore, la vita migliore, è quella notturna. Pasolini, un comunista non integrato, apprezza il modo in cui il sottoproletariato sopravviva a New York più che in Italia, perché va a braccetto con la miseria e con un pozzo senza fondo che chiunque vede pieno di possibilità. Se il fallimento esiste, nessuno si arrende mai ad esso.
Tutta la mia gioventù è stata affascinata dai film americani, cioè da un’America violenta, brutale. Ma non è questa l’America che ho ritrovato: è un’America giovane, disperata, idealista. V’è in loro un gran pragmatismo e allo stesso tempo un tale idealismo.
Non sono mai cinici, scettici, come lo siamo noi. Non sono mai qualunquisti, realisti: vivono sempre nel sogno e devono realizzare ogni cosa.
(Oriana Fallaci, Un marxista a New York, p. 235)
New York spietata
Finora una delle costanti nei racconti citati è la nostalgia dei tempi andati, dei luoghi passati, che non ritroveremo più negli scritti successivi se non quelli che si avvicinano all’autobiografismo. Spostiamoci su chi ha vissuto un altro tipo di New York ed è rimasto ai margini della storia assaporando la solitudine, dimensione che appartiene per buona parte alle donne. Sono proprio loro che riescono a trovare stabilità, a fermare la fame di cui parlava Pasolini. Vivono nel sogno, ma se perdono l’equilibrio non lo recuperano più.
Come la bella bionda, finita male, di Dorothy Parker, scrittrice che mostra come la strada per l’emancipazione passa per la vita mondana, in modo diverso da come l’aveva raccontata Fitzgerald. Dopo le feste, l’alcol, gli amici, Hazel Morse accetta l’intimità e la solitudine della vita matrimoniale. Basta il marito che la abbandona, per farla naufragare nell’alcol, da un uomo all’altro, cercando di rientrare nel sogno dalla quale si è risvegliata.
La bella Joan di Cheever – perché le donne di New York arrivano a confondersi con la bellezza dello skyline – scala la piramide sociale, eppure sulla sua persona niente si riflette, se non la costante bellezza, tanto da far venire in mente che tragga nutrimento dal detrimento dei suoi amati.
La solitudine sembra essere una condizione immanente delle persone, degli oggetti, dei luoghi. Mario Maffi, uno dei più importanti studiosi italiani di cultura anglo-americana, intreccia la ricerca di una “casa” con l’entità urbanistica di Manhattan, con la storia personale e sociale. Le sue tante dimore newyorchesi non significano mai casa, c’è il sentore che l’adattamento sia spinto più da un istinto di sopravvivenza nella Grande Mela. Fino a quando il percorso che ha compiuto con le case in cui ha abitato traccia il suo ingresso nel Lower East Side:
dall’esterno all’interno, da outsider ad almeno in parte insider (proprio ieri qualcuno mi ha fermato per strada e mi ha detto: «Ben tornato! Come va il libro?…»)
(Mario Maffi, Interni a Manhattan, p. 260)
Qualcuno di cui prendersi cura
Abitare a New York implica un sacrificio che, come Woody Allen, significa arrivare a gradire persino l’acqua marrone dei rubinetti. Per altri, il piccolo angolo di solitudine è allietato da un albero di ailanto e una gatta, come narra Maeve Brennan in Ti vedo, Bianca.
Bianca e l’ailanto forniscono a Nicholas la dimensione in più agognata da chi vive in appartamento. Le persone che non hanno terrazze e giardini bramano la fuga dalle loro quattro mura, senza avventurarsi troppo lontano. Vogliono uscire solo un attimo. […] Si sporgono dalle finestre, con i gomiti sul davanzale, e guardano in faccia i vicini alla finestra dall’altra parte della strada, tutti che fuggono dalle stanze in cui vivono e che sono felici di avere, ma nelle quali non vogliono rinchiudersi.
(Maeve Brennan, Ti vedo, Bianca, traduzione di Anna Mioni, p.214)
In effetti, è più la gatta a prendersi cura della salute mentale di chi l’accudisce, rendendo l’appartamento più spazioso, la vita più ariosa di quanto non sia. La risposta all’eco del vuoto interiore dei tanti che passano per New York è prendersi cura di qualcuno, in un gesto egoistico contro la solitudine che si trasforma in una dipendenza.
Nel capitolo Luminosa decadenza di New York, è quello che capita a Celia in Un luogo dove non sono mai stato di David Leavitt. L’eterna immaturità tra i ricordi di gioventù, il voler essere “grandi”, e l’incapacità di affrontare il presente fanno in modo che Nathan non riesca a stare lontano dalla città, perché niente gli dà più sicurezza che indossare il suo abito Armani e far sentire in colpa la migliore amica, da sempre innamorata di lui omosessuale.
New York va più veloce
Se l’orologio di New York segna la tua stessa ora, allora tu e la città camminate con lo stesso passo. Negli anni Sessanta il ticchettio della Storia andava a ritmo dei cortei che transitano a Washington Square ed Ed Sanders, in una delle tante storie del tempo, ci offre in un racconto dell’amore tra un beatnik e una ragazza di buona famiglia. Gli equilibri che da sempre hanno regolato il vivere americano sono stravolti e la vita dei giovani si anima di reading di poesia, mostre, film, amore libero.
Quanto al poeta beat, lui se ne sbatteva. I genitori di lei erano solo l’ennesimo paio di tacche sul bastone dei regolari. Era della serie: quelli non esistono. E se ci provano, me la batto con la loro figliola, la mia amata dove loro non arriveranno mai.
(Ed Sanders, La suocera, traduzione di Syd Migx, p. 223)
Si respira aria di precarietà che sa tanto di libertà. La stessa precarietà che si avverte negli anni successivi, quando l’interiorità di chi vive si mischia al giornalismo. Anche Joan Didion, come Capote e Fitzgerald, sente che New York cova possibilità infinite, come se in ogni momento «potesse accadere qualcosa di straordinario».
A meno che non lo si desideri, niente è per sempre, tutto è provvisorio, almeno quando si ha vent’anni. Il senso della realtà è risucchiato in un vortice da sogno e la Didion vivrà nel pensiero costante che a Natale, durante le feste, sarebbe tornata a casa una volta per tutte. New York crea una patina tra la vita reale e la coscienza della propria vita, abbellisce con nuove sfumature anche le realtà più sgradevoli. Persino la paga da fame e un appartamento con due sedie, sono le condizioni necessarie per apprezzare tutto quello che si vive fuori.
Ma per quelli di noi che vengono da posti dove nessuno ha mai sentito parlare di Lester Lanin e Grand Central Station era un programma radiofonico del sabato, dove Wall Street e Quinta Avenue e Madison Avenue non erano affatto dei luoghi, ma delle astrazioni («il Denaro», «l’Alta Moda», e «i Pubblicitari») New York non era solo una città. Era un’idea infinitamente romantica, il misterioso legame che teneva insieme tutto; amore, denaro e potere, il sogno stesso, luminoso e deperibile.
(Joan Didion, Bei tempi addio, traduzione di Delfina Vezzoli, p.266)
Allo stesso modo Mona Simpson, in Le cose che facciamo per amore, si ispira proprio alle vicende della Didion: New York è all’inizio una presenza scomoda, come quando si è sicuri di fallire perché si è consapevoli di non essere all’altezza. Poi, la città entra nella pelle, nelle abitudini, nel modo di vestire, per lei si sacrifica l’amore, si parla al passato, ma si parla come quando si è sicuri di stare meglio, senza nessun rimpianto.
Vivere a New York non è autodistruggersi, è immolarsi, senza malinconia, per un ideale.
Come vedete è impossibile riassumere New York Stories senza ripetere una quantità infinita di volte parole come possibilità, solitudine, amore e New York, come se la invocassi per avvicinarla.
Ho dissezionato una metropoli per ridurla alla dimensione di un pugno, ho aperto la mano e non c’era nient’altro che aria. Eppure ero sicura di aver passeggiato per Riverside Park, affacciandomi sull’Hudson, arrivando ad Harlem e da lì raggiungere Madison Avenue; o addentrarmi a Manhattan per raggiungere Central Park, poi giù fino a Midtown, l’Empire State Building, il Greenwich Village e Washington Square.
Newyorchesi non si nasce, ci si diventa e gli sguardi di chi ha vissuto New York fanno sentire quanto la città resti fondamentalmente sconosciuta.
«Raccontami di quel posto, ma cose vere, non bugie». Ma furono quasi tutte bugie le cose che dissi; non era colpa mia, non potevo ricordare, perché era come se fossi stato in uno di quei castelli incantati visitati dai personaggi delle leggende: una volta fuori di là, non si ricorda, tutto ciò che rimane è l’eco spettrale di una meraviglia che non dà tregua.
(Truman Capote, New York (1946), traduzione di Bruno Tasso, p.151)
Autore: a cura di Paolo Cognetti
Editore: Einaudi
Anno: 2015
Pagine: 400
Prezzo: € 21
Bellissimo.
Spesso mi dimentico che NYC è una città, reale, con tutti i problemi (anche idrici) delle città nate e sviluppatesi in poco. Non è solo film e libri.
Grazie del post
Per me è ancora una città della fantasia. Se non vedo non credo 😉
Bell’analisi.
Grazie! 🙂
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