Case infestate in letteratura. Quelle case nel bosco è una rubrica, nelle settimane che precedono Halloween, dove si leggeranno romanzi e racconti a tema.
Se dovessi spiegare cosa c’è di divertente nell’horror parlerei di una letteratura che riflette e osa reinventare. E, badate bene, non mi sto appellando alla Letteratura come a un piedistallo astruso e irraggiungibile se non per occhi avvezzi a riconoscere limiti e confini tra generi, ma semplicemente a una forma di intrattenimento. Mi sono chiesta perché leggo horror e ho cercato di allontanarmi dal mio punto di vista per arrivare a quello dei lettori.
Per me è inevitabile non avere un ricordo che colleghi, in un intreccio indissolubile, l’autobiografia e i libri letti, una modalità che pervade da sempre i gusti e il modo di vivere le storie e che determina l’apparato complesso dell’identificazione. Il primo libro acquistato, a parte valanghe di carte, ricerche sugli egizi e sui loro metodi di imbalsamazione, è stato proprio un libro di racconti dell’orrore e da qui nasce l’amore per componimenti, anche brevi, che si acquattano nel finale prima di scattare verso la sorpresa o che scandiscono la suspense fino al climax. Il tempo della narrazione è tutto, basti pensare al cadenzare di “Mai più!” ne Il corvo o al battito del Cuore rivelatore. Risultati che Poe ha ricondotto a una rigidità di composizione che poco si addice alla realtà di un genio oltre l’immaginabile. L’ispirazione doveva venire da qualche parte e, di certo, la disciplina alla quale lo scrittore si sottoponeva non era altro che un deterrente per controllare la miriade di storie che nascevano dall’imprevedibilità dell’immaginazione. La capacità di agire sul lettore era più importante della scrittura stessa e, nonostante fosse un narratore raffinato e ricorresse a forme auliche, l’estremamente dettagliato era per Poe un modo per favorire l’entrata in un mondo in cui la forza orrorifica si trasmetteva dalla scrittura al lettore, originando proprio da quest’ultimo.
Leggere horror è spaventarsi, dunque. Non proprio anche se con la paura ha a che fare scavando nelle lande desolate del non vissuto. La reazione a cui mi riferisco non è manifesta, ma matura in chi legge in un modo particolare. Lovecraft ha scritto che la paura è il sentimento più antico dell’uomo, forse perché si appella all’istinto, qualcosa di lontanissimo da qualsiasi reazione razionale. Affermava, tuttavia, che pochi riescono ad apprezzarne la forma letteraria: pochi sono disposti a lasciarsi andare, pochi credono alla paura simulata dalla lettura e sono quelli «immuni dalla monotonia della vita di ogni giorno, almeno di quel tanto sufficiente a rispondere ai richiami provenienti dall’esterno». Quello che posso dirvi sulla lettura degli horror è che se la nebbia della trama ha la fortuna di rimanere impressa, ci sono frasi con un potenziale d’immortalità maggiore rispetto alle altre storie. Il tutto favorito da uno dei pregi dell’horror che usufruisce di un alto grado di personalizzazione a seconda di chi legge: alcune scene colpiscono ma il dubbio del perché rimane, come quando ci si interroga sui motivi dei dettagli di un incubo.
Le visioni evocate sono più potenti delle parole scritte, a volte le superano e la fascinazione aumenta. Sto pensando a Stephen King e alla sua capacità di insinuarsi tra la realtà e quel poco di magia con la quale si interroga il mondo sconosciuto. Potrei parlare di Salem’s Lot e del ritorno dei vampiri europei in un’America già corrotta dagli uomini, tutti rappresentati nelle ipocrisie di un piccolo paesino; riesco a ricordare la facilità con cui una malattia, una “banale” influenza, si trasformi nell’epidemia che uccide quasi tutta la popolazione mondiale e che i pochi sopravvissuti giocano una battaglia per riordinare le priorità del bene e del male; sto pensando alle capacità esoteriche dell’incipit de L’incubo di Hill House; ricordo le ultime battute de Il ritratto ovale di Poe che fanno lo stesso rumore di una campana solenne; contemplo l’immagine dell’immobilità mortale della Torre Rossa di Ligotti.
In tutte queste storie s’intravede un messaggio inquietante proprio perché, se colto, ha lo stesso sapore di un bisbiglio ascoltato male, magari travisato, e, in quel momento, tremendamente reale. Nel saggio L’orrore soprannaturale nella letteratura Lovecraft ha venerato Poe giudicandolo l’unico in grado di capire che:
la funzione della narrazione creativa serve solo ad esprimere e ad interpretare gli episodi e le sensazioni quali sono, indipendentemente dal loro tenore o da ciò che dimostrano buoni o cattivi, attraenti o repulsivi, stimolanti o deprimenti, con l’autore che si comporta sempre da cronista vivace e distaccato, piuttosto che da maestro, simpatizzante, o venditore di opinioni.
Egli comprese che tutte le fasi della vita e del pensiero sono ugualmente utili come soggetti per l’artista […]
Osservatore distaccato ma partecipe, quel tanto per assorbire il funzionamento del mondo e riprodurlo su carta. Lovecraft non si contraddice, ma conferma l’esistenza di un background reale dal quale, altrimenti, non potrebbe originarsi il male. Questo bagaglio si trasforma nell’universo alternativo di Arkham e nelle figure mitologiche come Cthulhu.
Isolato tra i libri e amante dei classici, Lovecraft cresce nella casa di Angell Street a Providence dopo che i genitori erano stati internati. Il clima della vita con i nonni non è dei più felici e l’immaginazione di Lovecraft si manifesta in modo inquietante dopo un lutto, con i Night Gaunts, creature senza volto che infestato i suoi sogni sempre per portarlo via non prima di avergli solleticato la pancia. Diceva che se avesse dovuto scrivere un’autobiografia non avrebbe saputo cosa dire, ed è strano sentirlo da chi aveva una produzione così animata di racconti e di lettere ad amici e conoscenti. Più che raccontarlo preferiva sublimare il mondo reale in parole che, in alcuni casi, riguardano lo scrittore in prima persona. Sto pensando a La tomba, un peregrinare al limite del sensuale nel mondo dei morti, o a L’estraneo in cui dall’infanzia appartata seguiremo il protagonista fino alla rivelazione della consapevolezza di «essere un estraneo, uno straniero in questo secolo e tra coloro che sono ancora uomini».

Senza allontanarsi mai veramente da ammiccamenti impliciti e autobiografici, ci avviciniamo ad alcune storie che l’hanno o reso fatto uno degli eredi di Poe senza etichettarlo come semplice emulo. La casa evitata, per esempio, inizia col rendere Poe un personaggio reale che sosta davanti una casa infestata da una muffa misteriosa. Ritorna la raffinatezza e la curiosità sperimentale dei protagonisti che vagliano teorie e invenzioni scientifiche prima di lasciarsi andare a una spiegazione che contempli l’oscurità. Anche con L’immagine della casa e I ratti nei muri Lovecraft adotta e, contemporaneamente, si allontana dalla mera riproduzione di stile. Nel primo, come nella Caduta della casa Usher, il sospetto è manifestato da un presentimento visivo prima che sincero:
Per quanto distante dai resti della strada, la casa mi risultò sgradevole a prima vista. Le dimore oneste e timorate non ammiccano ai viaggiatori con tale malizia; e poi, durante le mie ricerche genealogiche, ero incappato in numerose leggende vecchie di un secolo, che mi mettevano in guardia contro posti di tal genere.
I ratti dei muri fa un passo avanti con la stessa terribile eredità che legava Usher e la sua casa. Questa volta, la voce narrante del rampollo della famiglia Delapore sente la casa infestata dallo zampettare di ratti per poi scoprire un terribile segreto di famiglia e l’esistenza di Nyarlathotep, il dio del «Caos Strisciante». Il racconto ha tutti i connotati per aspirare alla perfezione e, come le migliori storie dell’orrore, nello scioglimento del climax, ha un posto riservato al lettore. La riflessione sulla paura non è la paura in sé, ma le conseguenze di essa come se la scrittura conoscesse la banalità di quanto tenta di fare e passasse direttamente al dopo.
Rispetto a Poe, Lovecraft spesso usa la mitologia, frequenti sono i suoi riferimenti a radici antiche che agiscono sul presente, a indicare destini già segnati che non faranno altro che ripetersi. Nelle scoperte dei suoi protagonisti c’è un sottofondo irrazionale. È forse uno degli ostacoli che ho avuto con Lovecraft, il muro della risoluzione della vicenda si risolveva nel muro della presenza divina che lasciava in sospeso su un oblio infinito.
Il narrare minuzioso, a tratti esasperante, è l’identificativo di uno scrittore raffinato che paradossalmente mi allontanava fino a quando, rileggendolo, ho capito. E la risposta va in parte cercata nella formula che Lovecraft espone nei Racconti del soprannaturale: fasi e procedimenti di scrittura.
Ciascun racconto del Soprannaturale – particolarmente quello di orrore – sembra comprendere, a sua volta, cinque specifici elementi: a. l’esistenza di un’anormalità o di un orrore di fondo (siano essi costituiti da una condizione, un’entità, e via dicendo); b. gli effetti generali o aspetti di tale orrore; c. il modo in cui esso si manifesta (l’oggetto che incorpora l’orrore e i fenomeni osservati); d. le diverse reazioni di paura nei confronti dell’orrore; e. gli effetti specifici prodotti dalla presenza dell’orrore in relazione ad una data serie di condizioni.
Buttato lì, con la stessa freddezza di un ingrediente da ricetta, l’ultimo punto contiene la potenza necessaria per imprimersi nel lettore e fargli costruire un percorso parallelo: a. personalizzazione, b. sublimazione dell’orrore. La lettura diventa uno scambio e tutto quello che per lo scrittore era interiorizzare e buttare fuori viene recepito e, a sua volta, rielaborato. Per esempio, un racconto come Il tempio, storia di un esploratore con sottomarino in avaria nelle profondità marine, unisce il mio timore della tavola nera del mare, il non sapere cosa si nasconde “sotto”, e la fame di conoscenza. Il protagonista è così ossessionato dalla scoperta – e, in fondo, dalla glorificazione personale – da andare incontro a un suicidio certo senza neanche passare per la speranza di sopravvivenza.
Nonostante le storie di Lovecraft e Poe sembrino datate e incastrate nella narrazione ottocentesca, tra il dettaglio del realismo e l’immaginazione – senza tralasciare le infelici cadute nel razzismo del buon vecchio Lovecraft – contengono fili portanti della paura universale. Si tratta di dettagli teorici attualizzati dal tempo di cui fanno parte che è in grado di rendere le storie praticamente immortali. Come sono immortali i sogno – e gli incubi – degli uomini.
Tutte le citazioni sono tratte da:
Lovecraft. Tutti i romanzi e i racconti
A cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco
Editore: Newton Compton
Anno: 2011
Pagine: 2833
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Grandissimo pezzo! Nella vita ho leggiucchiato Poe ma credo di essere più lovecraftiana, devo assolutamente recuperare. Ho visto che in Edizione Economica Feltrinelli esiste una raccolta di racconti, “Il dominatore delle tenebre”, credi sia completa? Hai avuto modo di vederla?
L’edizione l’ho vista in libreria ma non l’ho avuta tra le mani. Ho visto che c’erano proteste per la traduzione di Sergio Altieri. In generale per Lovecraft mi sono sempre servita delle edizioni Newton Compton. Il Mammut forse è molto grande, con un numero di racconti eccessivo per iniziare, ma ti consiglio anche “La tomba e altri racconti dell’incubo” (i curatori sono gli stessi del Mammut). La cosa bella è che i racconti vengono introdotti da note dei curatori che spiegano background interessanti della storia.
Interessante, devo proprio fare un salto in libreria 😉
Un bell’articolo.
Grazie!
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[…] più di altre narrazioni, trova nella sublimazione il motore delle proprie storie. La vitalità del mondo interiore di Lovecraft lo portò a popolare il buio con esperienze reimmaginate o creature espressione della […]