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Cosa abbiamo perso senza averlo: Un’altra cena di Simone Lisi

«Ci avevano fatto delle promesse». Questo non è l’incipit di un’invettiva politica e la frase viene subito corretta: «Erano state fatte delle promesse» e si passa al discorso generazionale. I miei genitori o i genitori della persona con cui sto parlando, almeno quindici anni più grande di me, fanno parte dei giovani vissuti dopo il Sessantotto, investiti in pieno e in diversa misura dal tumulto culturale. Nonostante partissero da una relativa povertà hanno raggiunto l’obiettivo: una vita mediamente felice, una casa mediamente borghese, una famiglia tutto sommato poco disfunzionale. Il lavoro non era il proseguimento di una passione o di una propensione personale, era un individuo che si plasmava in base alle esigenze, un investimento per il futuro di crescita, famiglia, figli e case per le vacanze.

C’è però una generazione che è rimasta incastrata tra una dimensione temporale e l’altra diventando un ibrido dalla deambulazione incerta: questo Frankenstein generazionale è stato assemblato tra i valori dei padri e aspetti della vita prima totalmente sconosciuti. Simone Lisi racchiude quest’anomalia temporale nei trentenni protagonisti di Un’altra cena. O di come finiscono le cose (effequ, 2018). Un romanzo diviso in quattro atti che all’interno, a sua volta, è organizzato come una scatola cinese: le diverse parti sono scandite dallo spostamento tematico e spaziale indicato dal nome delle stanze della casa. Tutto si svolge nell’appartamento di Livia e Doriano in cui avrà luogo la cena con un’altra coppia di amici.

Quella che si prospetta come una serata all’insegna di chiacchiere indiscriminate diventa, invece, l’espressione di piccole tensioni nascoste nella vita di ognuno. Una misteriosa luce sempre accesa in un altro edificio, le vacanze di gruppo in Cilento, turisti tedeschi, un canarino che viene liberato dalla sua gabbia per non essere mai più visto: la cura quasi ossessiva nell’affrontare discorsi vagamente superflui provoca una visione abbastanza chiara sui bisogni dei partecipanti. Da una parte c’è il desiderio di chiusura per cui tutte le storie raccontate hanno una fine, o una ricerca della fine nella finzione, dall’altra c’è il senso crescente di un’occasione mancata.

Lisi è abilissimo nell’orchestrare interi dialoghi creando un crescente squilibrio tra due percezioni contrastanti: l’impressione di partecipare a una cena come muti testimoni lascia il posto all’assistere vite frammentate in cui una sorta di sindrome ossessivo compulsiva si fa avanti quando ogni argomento viene esasperato con la perdita di tutto il piacere della convivialità. Capita a Doriano quando descrive il proprio lavoro part time alle poste e poi quello di sottotitolatore di telefilm. Si pone al limite tra l’inseguimento di un sogno e la consapevolezza di non poter raggiungere tutte le promesse che aveva previsto. Il farcire la propria vita di un’etica da rispettare viene si annulla nell’assoluta immobilità dei personaggi.

Con il solo uso di dialoghi o di lunghi monologhi interiori Lisi mostra i nuclei tematici che vengono continuamente limitati dal lessico dedicato: i trentenni disoccupati, i trentenni single o ancora non sposati, i trentenni mammoni, i trentenni indecisi e precari. Un’altra cena è un ulteriore tassello a quella narrativa italiana che, con grande varietà di stile, racconta le idiosincrasie di una stessa generazione. Cristò, per esempio, in Restiamo così quando ve ne andate organizza la storia attraverso l’universo claustrofobico della casa e del lavoro poco remunerativo per chi vuole dedicarsi alla vita artistica; Francesco Dezio con Nicola Rubino è entrato in fabbrica e La gente per bene, ha affrontato con ironia nera e cinismo il lavoro lì dove ne è esaurita ogni possibilità; e, infine, Giorgio Falco con Ipotesi di una sconfitta alterna l’esperienza personale alle implicazioni socio-economiche del mondo del lavoro. Persino nell’esempio di questi tre romanzi possiamo avvertire un graduale spostamento dalla descrizione della società dei consumi – che crea eserciti di lavoratori sincronizzati alle leggi del mercato – alla sfera privata, claustrofobica e alienata del lavoratore tra le mura di casa (come nel caso di Cristò).

L’opera di Lisi è sicuramente lontana dalle dinamiche che caratterizzano i romanzi industriali, ma fornisce un contributo alla sfera privata di giovani lavoratori che sono stati costretti a ritrattare ogni aspirazione.

Non è esclusa neanche la vita di coppia che si costituisce di individualità impazzite che hanno perso la sintonia iniziale e si rifugiano nella sicurezza, o forse nell’illusione, di aver costruito qualcosa nonostante tutto.

«Perché tutto questo sforzo? Voglio dire, se questa vita è bella allora bisogna fare i figli?»

«Li faremo» risponde Livia «solo non oggi».

Gli elementi che i personaggi hanno a disposizione sono più l’applicazione di una teoria che un serio impegno. Costruire la famiglia tradizionale anche se svuotata delle premesse iniziali (quella religiosa e persino quella sentimentale) s’impone come unico modello contro l’apparente piattezza di legami non ufficialmente definiti.

Qui torna la vacuità delle affermazioni iniziali: sull’entità della promessa i trentenni di oggi potranno accusare solo loro stessi in un circolo vizioso tra quanto hanno assimilato dall’esterno e quanto sono disposti a cambiare. «Esiste solo la vita borghese» dirà uno degli invitati, eppure, dopo poco, quasi in un grido di rivalsa sarà costretto ad affermare: «Insomma perché non pensare di vivere in affitto per sempre? Perché non pensare di poter domani sempre partire, andare trasferirsi nella periferia di Teheran?»

simone lisi-un'altra cenaTitolo: Un’altra cena. O di come finiscono le cose

Autore: Simone Lisi

Editore: effequ

Anno: 2018

Pagine: 172

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