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Conosciamo l’America dalla morte al mattino

C’è un conflitto che più di tutti caratterizza un tipo d’uomo. È un conflitto vecchio come l’essere umano, una battaglia persa in partenza ma a cui gli scrittori – il tipo d’uomo a cui mi riferivo – si rivolgono inconsapevolmente.

Mi riferisco alla morte: loro che sono i voyeur del mondo non possono evitarla e, allo stesso tempo, hanno trovato l’antidoto. Non si può sfuggire alla morte, direte voi, e io rispondo che sarà altrettanto impossibile sfuggire all’immortalità.

«Non immaginavo niente. Speravo, almeno dopo la morte, di poter vivere in pace»

«Lei ha fatto di tutto per essere immortale»

«Sciocchezze. Ho scritto libri. Tutto qui»

«Appunto!» rise Goethe.

(Milan Kundera, L’immortalità, traduzione di Alessandra Mura, Adelphi, 2009, p.95)

In uno dei più bei dialoghi nell’aldilà, Kundera fa incontrare Hemingway e Goethe e descrive perfettamente la condizione dello scrittore, consapevole del mondo che si confronta con le sue opere.

Gli scrittori, si sa, non hanno un’unica battaglia da combattere. In particolare, ne hanno una per cui la vittoria non è mai certa: lo scontro con la vita e la capacità di includerla almeno in parte nelle loro opere, quella che fa considerare i personaggi parte di un mondo reale per il lettore in quel momento.

Voglio raccontarvi la storia di Thomas Wolfe, nato ad Ashville, nella Carolina del Nord, da una famiglia di umili origini. Riuscirà a frequentare Harvard, insegnare a New York e, piccolo dettaglio, entrare a far parte della classifica dei cinque migliori scrittori americani contemporanei secondo William Faulkner. Dio solo sa quanto avesse ragione Faulkner quando ha detto «ha avuto un gran coraggio, scriveva come se gli restasse poco da vivere», perché Wolfe morì a soli trentotto anni. Lasciò, tuttavia, la sua amata immortalità.

In origine Dalla morte al mattino era un’opera immensa dal titolo The October Fair a cui si era dedicato dal 1930 fino alla morte, ma che insieme all’editor Maxwell Perkins (lo stesso di Hemingway e Fitzgerald) aveva tagliato e rimaneggiato.

Un’opera-fiume che sfugge a facili classificazioni e che potremmo immaginare come una matrioska: vediamo lo scomparto del racconto con all’interno quello della poesia, apriamo anche questo e scopriamo quello dell’autobiografia.

Benché in quasi tutti i racconti sia possibile trovare traccia della vita di Wolfe, tanto da far pensare che non si possa vedere la sua scrittura astratta dalla sua esperienza personale, i racconti migliori sono quelli dove fonde i ricordi autobiografici e li espande fino a renderli universali.

In Nessuna porta, la solitudine, una condizione da lui a lungo sperimentata, diventa ben chiara al lettore. Qui l’urgenza di Wolfe è di conoscere il mondo, e ci narra di come ha cercato di coniugare gli anni di studio, dove sperava di trovare nei libri la conoscenza che bramava, e la consapevolezza che per cercarla doveva uscire dalla biblioteca universitaria. In questo e in tutti i componimenti il risultato è una prosa colma di lirismo.

Alterna momenti di placida osservazione del mondo a momenti di poesia in prosa. Lunghe frasi ripetono più volte la stessa sensazione vestendola sempre con parole diverse, dilatandone il significato fino a coglierne le più diverse sfaccettature. È probabilmente questo che colpisce di Wolfe, la capacità di partire dall’esperienza ed estenderla potenzialmente all’infinito.

E i lettori diranno che sì, conoscono la solitudine perché Wolfe gliel’ha presentata, come succede con la morte, onnipotente e innocente, che prenderà la parola, come molte altre cose astratte e inanimate:

Tu sudi e fatichi, tu speri e soffri: io ti uccido in un colpo, in un istante, o lascio che sia tu stesso ad asfaltarti bestemmiando la strada verso la morte, ma non mi interessa se muori o resisti, se sopravvivi o sei maltrattato, se tra le onde del mio mare soffochi o riesci a nuotare. Non sono gentile, né crudele, né amorevole, né vendicativa – sono indifferente a tutti voi, perché so che altri verranno quando ve ne sarete andati e altri nasceranno quando morirete, a milioni si alzeranno quando voi cadrete – e che la Città, la Città immortale, rifluirà ancora e per sempre come mare su questa terra.

(da Nessuna porta, p. 75)

109584Immagini ma anche evocazioni poetiche, veri e propri canti dedicati alla Morte, al Sonno, alla natura che più di tutte, con il susseguirsi delle stagioni, degli odori, dei colori, dà all’uomo l’idea dello scorrere del tempo.

Lo sguardo della scrittura di Wolfe si allarga fino a includere le forze immutabili che agiscono sulla vita umana, minuscola e insignificante al confronto: così da un individuo intravisto, si passa a un gruppo di persone, fino a includere la folla indistinta della metropoli o l’intera terra americana:

La vera storia del Vecchio Catawba è una storia di solitudine, di terre selvagge, dell’immensa, eterna terra, è la storia di milioni di uomini che in solitudine hanno vissuto tra deserti e foreste e lì sono morti, la storia dei miliardi di atti e istanti mai registrati delle loro vite; è la storia del tempo, di un tempo oscuro, un tempo strano e segreto che scorre in eterno come un fiume.

La storia del Vecchio Catawba è la storia di milioni di uomini vissuti in solitudine nella terra selvaggia, è la storia di milioni di uomini che hanno vissuto le loro brevi vite in silenzio sulla terra immortale, che la terra hanno ascoltato, che conoscono le sue moltissime lingue, che alla terra hanno dato la vita, che alla terra hanno ricongiunto le loro ossa e la loro carne, all’immensa terribile American che non dà risposte.

(da Vecchio Catawba, p. 232)

La prosa di Wolfe è prolissa, può interrompere la lettura quasi per l’esasperazione di arrivare a una fine. Con la sua scrittura ha riempito tutte le sfumature possibili, al lettore rimane scegliere di riconoscersi in una o farsi sommergere, quindi non preoccupatevi di saltare qualche pezzo, riprenderlo dove più vi aggrada. Con Wolfe bisogna avere pazienza.

La sensazione è che, nonostante tutto, l’autore si senta come il macchinista di cui narra ne Il lontano e il vicino, che si reca nel luogo che pensa di aver conosciuto perché osservato, per anni, dal treno:

Il suo cuore, un tempo coraggioso e sicuro di sé nel guardare quei luoghi familiari dal finestrino del treno, era adesso disgustato per l’insicurezza e il ribrezzo che provava di fronte al volto strano e imprevisto di quella terra che era sempre stata a un passo da lui, ma che alla fine non era riuscito a conoscere e fare propria.

(da Il lontano e il vicino, p. 208)

È probabile che Wolfe non arrivò mai a comprendere la sua capacità di raccontare il mondo, insoddisfatto nella spasmodica ricerca di descriverlo in profondità.

wolfe_dalla-morte-al-mattino_cover_13feb14Autore: Thomas Clayton Wolfe

Editore: CartaCanta Editore

Anno: 2014

Traduzione: Jacopo Lenkowicz

Pagine: 280

Prezzo: € 15

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0 commenti

  1. […] l’estensione di un’intera città, c’è chi si illude di conoscere Brooklyn (sappiamo che Solo i morti conoscono Brooklyn, giusto?), quando quello che può fare è essere spettatore di mondi con diverse velocità, […]

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