La città rimpicciolisce e tu cresci. Dicono che la città si sta espandendo, arriverà a includere sobborghi e paesini un tempo isolati. Tu implodi nel tuo corpo riducendo in scala il limite sempre crescente dei passi che puoi compiere; la città esplode verso l’esterno. E non si capisce chi dei due si stia dimenticando prima dell’altro. Il modo migliore per riconoscerlo è andare via e poi tornare. Proprio quando anche le sfumature più odiose della tua realtà ti risulteranno nostalgiche e familiari, la città sarà cambiata, tu sarai cambiato e nessuno dei due chiamerà l’altro come una volta. È stato vero quando ho cambiato città per più di due volte, continua a essere vero quando ricerco qualcosa di familiare nelle nuove città. Lontana da ogni tipo di provincialismo, cerco di appropriarmi di una realtà che non mi appartiene.
Poi ho pensato di essere fortunata per non aver vissuto a New York e per non dover cercare di catturare un suo ritratto. Paul Auster l’ha definita un’immensa Babele, Truman Capote ha scritto di non poter ricordare un castello incantato, una fantasia difficile da far coincidere con la realtà. La parola d’ordine fino ad ora è l’essere sfuggente e totalmente inconoscibile. Con questo non voglio dire che New York deve esistere solo nei racconti, ma New York ha un modello da cui tutto è nato e di cui se ne dà testimonianza. Perché New York è in continua evoluzione e non appare mai ferma e darne un unico volto significherebbe escluderne tanti altri.
Una delle migliori trasposizioni letterarie, una delle prime volte che New York si avvicina a che è raccontato è Il colosso di New York di Colson Whitehead. Prima di comporre La ferrovia sotterranea (vincitore del National Book Award e nel premio Pulitzer) lo avevamo conosciuto tra gli alti e bassi della sua scrittura, non sempre così incisiva da fargli guadagnare lo status di autore affermato. Il colosso di New York è un saggio sperimentale, che fa di una scrittura sismografica l’esatta corrispondenza con la Grande Mela.
Il migliore approccio a un territorio pressoché enorme e infinito nella finzione, è percorrerlo per nuclei tematici e raccontare ogni parte della città con una caratteristica diversa. Port Authority è “l’entrata di servizio” dopo un lungo viaggio che fa assaporare il sogno facendoti vedere la sua realizzazione per poi gettarti nell’anonimato di un arrivo in autobus. Se a Broadway non senti di essere nessuno probabilmente non sei degno di camminarci. Il ponte di Brooklyn è come nei film, ma non bisogna farsi ingannare dalle fantasie che appartengono ad altri. Le storie segrete nascono e muoiono nel giro di una corsa della metropolitana.
Tutti si ricordano la città. La città si ricorda di qualcuno. Lui scompare a ogni passo. Chi è tra la folla. Individuatelo nella massa. Non sarebbe buffo se alla città importasse davvero qualcosa di te. Se tu lasciassi il tuo segno, nonostante tutto, se alla fine questo mettere un passo dopo l’altro equivalesse davvero a fare la carità e, dopo tanti anni, in un unico improbabile momento, il luogo ti sorridesse.
(Colson Whitehead, Il colosso di New York, traduzione di Katia Bagnoli, Mondadori, 2004, p.81)
La velocità con cui si seguono le storie in una staffetta di pensieri e di personaggi che si danno il cambio dopo ogni punto è tale da assaporare un ritratto frammentato e mai definito. Il prendere e l’abbandonare la seconda e la terza persona e una serie di personaggi informi, non fanno che aumentare la percezione del lettore di una conoscenza fortuita della città. Nonostante una topografia ben nota, indicata semplicemente dai nomi dei luoghi, l’essenza di di New York rimarrà inafferrabile se non addirittura umorale, soggetta alle numerose personalità che la percorrono. Nonostante sia la versione di New York più vicina alla realtà, la sua identità fumosa, la simbiosi che intercorre tra quello che è, che è stata e che sarà è tale da rendere complesso lo stare al passo.
“Forse diventiamo newyorchesi il giorno in cui ci rendiamo conto che senza di noi New York continuerà a esistere”. New York è la città che instaura un legame fortissimo e spesso invisibile con la finzione. Non lo coglieremo fin quando anche chi ascolta le storie non ne avrà inventata una per se stesso.
Titolo: Il colosso di New York
Autore: Colson Whitehead
Traduzione: Katia Bagnoli
Editore: Mondadori
Pagine: 150
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che bello, ho aperto l’articolo pensando, ingannata dall’immagine, che parlasse de La ferrovia sotterranea e invece ho scoperto un altro libro da aggiungere alla lista desideri!
Mi fa piacere! La ferrovia sotterranea non mi è piaciuto come Il colosso di New York 🙂
mmm quindi adesso ho il dilemma su quale inserire nella lista desideri per natale!