«Cosa ti piacerebbe dirci, su due piedi, su Atlante delle ceneri?»
«La prima cosa che ho voluto fare con il libro tra le mani è stata mangiarlo. Il mio piano è mangiarne una pagina ogni giorno fino a finirlo.»
Da qui si comprende come Blake Butler sia un personaggio fraintendibile, un hipster dai toni estremi, che distrugge e maltratta l’opera e che esprime alcune opinioni sul Grande Gatsby. I suoi modi si pongono a metà tra una performance artistica e la costruzione di un personaggio esaltato, maschera necessaria ai tempi dell’Internet contemporaneo.
Prendendo il suo Atlante delle ceneri (traduzione di Stefano Pirone, Pidgin Edizioni, 2018) c’è in realtà la sensazione che il bisogno di fisicità, per quanto estremo e stravagante possa essere, si plasmi sul prodotto editoriale (graficamente peculiare) e sulla storia. Anche l’edizione italiana riporta la cura di quella straniera: le pagine sono contornate da un bordo sfuocato, nero, come se fosse il risultato di un metodico incendio che non ha raggiunto il cuore della pagina; i capitoli che annunciano una piaga presentano texture diverse che vanno a fondersi col testo.
Atlante delle ceneri è una bibbia della disgregazione: ogni capitolo è introdotto da una calamità che si abbatte sulla terra producendo, nella storia che segue, una realtà distorta tra il visionario e lo straniante. Il capitolo della Polvere introduce La casa del fumo in cui una famiglia assiste inerme alla graduale combustione spontanea della casa; alla piaga della Ghiaia segue il Questionario per il risarcimento danni e alle domande una donna risponderà con una litania costante che la allontana dalla risposta vera e propria. La desolazione scenografica è in realtà ricca di periodi evocativi che dall’ambiente vanno a concentrarsi costantemente sui corpi.
Sento ancora il sapore delle canzoni che cantavo al mio bimbo. Riuscivo a distinguere i suoi lineamenti attraverso il mio involucro. Tossivo umidi ritornelli attraverso i miei denti molli.
Una carrellata di madri costituisce l’involucro privilegiato per rimarcare non solo l’origine materiale e carnale della vita ma anche il paradosso di una fine che inizia da chi dovrebbe generarla. Il martellante scenario apocalittico insiste sullo smarrimento del lettore: non è presente un filo da seguire, solo visioni decadenti in cui i personaggi si muovono senza meta. Nascosta tra le maglie della narrazione si aggira un’abilità di cui è inutile parlare in un mondo senza passato né futuro: «Era convinto che prima avesse smesso di ricordare, prima si sarebbe addormentato»; «COME RICORDERAI? Come ricorderò? Nelle fiamme. Nel rantolo delle nuvole».
Proprio l’assenza di una trama con tutti gli elementi canonici che la compongono rischia di far galleggiare la storia in un limbo. L’intento dell’autore era farsi guidare senza tutti quegli artifici che imbrigliano gli eventi in schemi complessi di personaggi e relazioni, utili a conferire una coerenza di percorso e a guidare chi legge. La scelta di Butler è stata affidarsi all’alternanza di diversi registri narrativi: si passerà dalla contemplazione puramente descrittiva al galleggiare in allucinazioni altamente liriche. In questo modo l’autore elimina l’obbligo di condurre a una meta che coerentemente con la fine del mondo non esiste.
Atlante delle ceneri va a collocarsi in quel tipo di narrazioni distopiche e sperimentali che hanno affascinato anche alcune uscite italiane. Il corpo che vuoi di Alexandra Kleeman, o il più canonico Alfabeto di fuoco di Ben Marcus ne sono una dimostrazione. Ma la collana Ruggine di Pidgin edizioni contiene ormai alcuni giovani rappresentanti della narrativa straniera di questo genere: la stessa straniante sensazione prende nella lettura di Mira corpora e altrettanto intrigante è la realtà sudafricana misteriosa ne Il reattivo. Atlante delle ceneri s’inserisce in maniera coerente nel progetto senza però negarsi a nuovi spazi del tutto inediti e personali.
Titolo: Atlante delle ceneri
Autore: Blake Butler
Traduzione: Stefano Pirone
Editore: Pidgin
Pagine: 200
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