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La critica letteraria è utile, parola di Anne Carson

In occasioni speciali si veste da Oscar Wilde. Del personaggio ama l’eleganza e lo spirito, poi confessa di apprezzarlo per la sua vicinanza temporale al mondo latino e greco. Anne Carson abbandona ogni vanità e ammette di non avere il piglio umorista di Wilde. In compenso sa bene di comprendere l’ingenuità e il senso di scoperta dei fondatori della conoscenza. Cita John Cage che dice: «Nessuno può avere un’idea prima di iniziare davvero ad ascoltare». Sembra l’affermazione di una studiosa qualsiasi, o dell’insegnante dalle velleità letterarie mancate per il bene del mondo che non è pronto ad apprezzarla.

Neanche l’incontro fortuito con un’edizione dei poemi di Saffo con testo greco originale a fronte, in un angolo della libreria di un centro commerciale di Hamilton (in Ontario, Canada), ci fa abbandonare le vesti di lettori navigati ed eleganti per tuffarci nel gossip delle forme di predestinazione dei veri talenti. Può dirci molto di una biografia segretissima e intermittente, del suo potere mesmerico sulla vita artistica di Anne Carson come raffinata classicista, poetessa, saggista e traduttrice. La scrittura curata e puntuale esula da ogni classificazione stilistica e di genere. Scrive di attrazione, sesso, desiderio, dolore, perdita e tanto altro rielaborando esperienza personale, critica letteraria, storia, antropologia, mitologia greca, e guardando anche ad autori contemporanei come Kafka, John Keats, Gertrude Stein, Virginia Woolf.

La scrittura della Carson è un reticolo ipertestuale senza la freddezza dell’ostentazione intellettuale. Tutti i riferimenti che s’individuano tra i versi in prosa o nei componimenti ibridi sono saperi consapevoli e sperimentati: nella letteratura o nella disciplina poetica non c’è la citazione spensierata lanciata nelle mani del lettore, ma c’è la volontà di svelare l’enigma della realtà, la voce di chi ci è passato ed è alla ricerca di spiegazioni dagli autori preferiti.

La duplice missione di attraversare una narrazione da critica e da lettrice appassionata ha creato una lingua in grado di inaugurare scambi continui tra prosa e poesia. Il faro della tradizione non la incardina in una gabbia stilistica sempre uguale ed è il trampolino per entrare e uscire da sé: portare dentro l’ignoto e partorire un’esperienza dai frutti insperati. Anne Carson attraversa matrimoni falliti, mondo greco, la combinazione tra eros e dolore nella parola di saffica invenzione (nella sua prima opera Eros the Bittersweet); il tango come metafora di un amore sincopato, motore di desideri impossibili da controllare (la raccolta di poesie The Beauty of the Husband: A Fictional Essay in 29 Tangos); il disfacimento dei rapporti umani in Antropologia dell’acqua.

Si potrebbe dire che quella di Carson è una scrittura di opposti perché al realismo affianca una ritirata nel visionario. E non è così scontato seguirla nello scambio. I pezzi smarriti nella traduzione, sia essa letteraria o esperienziale, colpiscono più del non detto perché sono visioni, pause, buchi di storie e finali interrotti. Se da una parte l’autrice ha suscitato entusiasmo per un’arte versatile, mai scontata e altamente sperimentale, dall’altra riceve critiche di chi considera azzardati gli accostamenti tra autori molto lontani tra loro. Troppo intellettuale, troppo oscura, eppure lei afferma di riposarsi «ai margini dell’essere straniera».

Leggendo tre sue opere edite in italiano ho però capito che c’è bisogno di sviluppare una consuetudine. Passato il primo impatto dell’ansia da prestazione da confronto intellettuale non rimane che scavare con lei e con tutti gli autori evocati.

La piega del tempo, l’inclinazione dei legami: Antropologia dell’acqua

«L’acqua non è una cosa che puoi trattenere. Come gli uomini.» Antropologia dell’acqua (pubblicata da Donzelli e curata da Antonella Anedda, Elisa Biagini, Emmanuela Tandello) si apre con un’ammissione: tutti i tentativi di costruire ancòra, cura e reciproca salvezza non includono la stabilità nel loro campo semantico. Dall’incertezza e dalla paura di definire i legami può scaturire un terremoto della lingua, una sintassi slegata, un’insicurezza nel maneggiare le stesse parole che organizzavano un mondo che non è più.

In Tipi di acqua. Un saggio sul cammino di Compostela brevi frammenti testuali conducono alle varie tappe di un diario di viaggio che è anche raccolta poetica e saggistica insieme. Più che il resoconto di un viaggio siamo davanti a un reportage di un’interiorità in grado di usare la realtà come una cartina di metafore.

Il piccolo hotel di Burguete è fatto d’acqua. Fuori per tutta la notte cade la pioggia. I tetti colano, nelle grondaie galleggiano rane e lumache. Tu non puoi vedermi, sono al buio, in ascolto come in un vortice. I muri dell’albergo sono pieni d’acqua. Le tubature scrosciano e rimbombano. Un orologio d’acqua, incassato nel cuore dell’edificio, scandisce le nostre ore in gocce smisurate. Ruote e ingranaggi girano nel muro, il mugghiare degli amanti ondeggia sul soffitto, la scala è un acquedotto di versi. Da sotto posso sentire un uomo che sogna.

Alla fine della lettura sapremo poco del lato spirituale e catartico legato al cammino di Compostela, in compenso conosceremo i punti cardinali di un’identità sfumata in un perpetuo moto a luogo. Acqua, cammino, distanza ricorrono nei frammenti in una miriade di combinazioni: l’inquietudine delle tempeste come presagio di scontri interiori o di ricordi, il cammino come antidoto all’immobilità sentimentale, la distanza tra i tipi di persone che siamo nel dolore. Nel bagaglio degli autori che la accompagna Kafka sarà il messaggero di allontanamenti: la citazione di un suo racconto nel primo saggio ci traghetterà fino alla Lettera al padre, come a creare un parallelismo tra il padre dell’autrice malato di Alzheimer e l’amante. Un saggio sulla differenza tra donne e uomini racconterà un’educazione sentimentale on the road, la cronaca di innamoramento e disillusione:

Il dolore non ha significato. Non ha ben definiti dirupi. Il dolore è un forno. Dove le droghe finiscono e il lusso se ne va un po’ alla volta. Ma per il momento lui dorme. Luccica. La notte continua lentamente a bruciare. Mai a caccia il mio desiderio, che odio, siede vicino al letto. Luna piena, l’ultima che vedrò con lui. Già sembrano anni. Ogni piccola cosa l’intera verità.

C’è un’abilità inedita e ben calibrata nell’incrocio tra l’adattamento delle citazioni alla propria vicenda e l’impianto simbolico che diventa fondamentale per il lettore. Il comune denominatore non può che essere una metafora tanto banale quanto scenografica come l’acqua e l’inesorabile scioglimento degli affetti. Da qui, però, attraversiamo vicende autobiografiche senza avere mai l’impressione di entrare in un campo comprensibile solo a chi l’ha vissuto. Chi scrive si presenta come narratrice sopravvissuta alle trappole dell’acqua, ma la sua immagine sfuma continuamente a favore di una simbologia che può assumere tratti inediti a ogni rilettura. Uno di quei testi che può essere letto in momenti diversi della vita e il cui riflesso rifrangerà ogni volta in modo diverso.

Anne Carson è in grado di sincronizzare i riferimenti all’Amleto, al teatro giapponese, alla cultura delle geishe e agli haiku, con vissuto e scrittura. Non è sempre un incontro che si conclude felicemente perché nasconde tutta la lotta con sé stessa. Il racconto si sfilaccia, a volte perde la distanza neutrale e si getta nell’improvvisazione del momento presente all’infinito.

Titolo: Antropologia dell’acqua

Autore: Anne Carson

A cura di Antonella Anedda, Elisa Biagini, Emmanuela

Editore: Donzelli

Anno: 2010

Pagine: 165

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Il diverso nel mito: Autobiografia del rosso

C’è altro oltre la bellezza estetica del segno greco e dell’amore per la traduzione. Anne Carson lo ammette candidamente quando considera che il mondo classico è il primo a vedere accadere le cose in un modo letterario: uno dei primi a sviluppare le storie della tradizione umana e a scoprire, come un bambino dall’instancabile “perché”, il prezzo di una lezione di vita.

La coscienza umana in nuce è in grado di rivelare ancora molto di quella contemporanea. È una visione che si adatta perfettamente a un espediente letterario che già conosciamo da un’altra autrice come Louise Glück, vincitrice del Nobel. Il ricorso alla mitologia da rimaneggiare in chiave moderna permette l’affiancamento di realtà e tempi altrimenti inconciliabili, a condizione che ci sia preparazione e approfondimento da chi muove i doppi binari.

In Autobiografia del rosso (traduzione di Sergio Claudio Perroni, La nave di Teseo, 2020) Anne Carson gioca a carte scoperte e ci tiene a tessere la storia sin dall’introduzione. Il profilo del poeta greco Stesicoro lo distacca dai suoi contemporanei e i dettagli incompleti della biografia, insieme a pochi frammenti rimasti dei suoi componimenti, lo fanno assomigliare alle zone d’ombra dei personaggi letterari. Superata la regolarità dialettica che era parte dell’epica omerica (tra epiteti e aggettivi che regolavano mondo e personaggi) leggeremo i pochi frammenti della Gerioneide: la storia di Gerione, il mostro rosso con tre teste che deve proteggere la mandria di vacche sull’isola dell’Eritea. La storia racconta che verrà ucciso da Eracle, il semidio che deve completare le sue dieci fatiche. Non c’è tempo di addentrarsi nel mito perché verremo catapultati tra Gerione ed Eracle adolescenti, a vivere un amore tormentato (per il primo) tra stazioni di autobus, abusi famigliari non dichiarati e amplessi consumati in auto. Lo spiraglio di classicismo intravisto poche pagine prima è una comparsa utile a mostrarci il potere traspositivo dell’autrice.

È inevitabile che nella traduzione qualcosa si perda, qualcosa di non visibile in superficie ma che fa parte dell’abilità del traduttore di addentarsi, lasciarsi coinvolgere e conservare l’identità e l’indipendenza del suo mondo. È inevitabile quindi che l’universo costruito tra prosa e poesia ci appaia frammentato, fatto di visioni fugaci ed episodi a metà come possono esserlo gli amori dei ragazzi. Nel creare materia viva e nuova da quello che esiste già Anne Carson riesce a mettere in parole il discorso amoroso, non sempre comprensibile, non sempre sopportabile, che conserverà sempre l’oblio della non esperienza.

Autobiografia del rosso diventa un romanzo di formazione e di viaggio, riflette sul tempo e sulla narrazione riuscendo a mantenere la coerenza di tutti i piani paralleli e sacrificando la sua completezza. Il mito deflagra e l’impianto intellettuale di Anne Carson si libera dalla rigidità della teoria in favore di una poesia popolare. In questo modo la sua opera non va letta in un’unica direzione ma prende più realtà alternative senza mai completarle. Visiteremo il New Mexico ma non ne vedremo un angolo impegnati come saremo a capire la città placebo per Gerione; andremo a caccia di vulcani con Eracle e il suo nuovo fidanzato ma ci troveremo a contemplare futuri e morti incompiute. L’opera ci appare come sottoposta a una lavorazione infinita ed è forse questo l’apporto imperfetto di chi scrive: essere un lettore insoddisfatto ma felice di aver scoperto l’indefinitezza delle storie.

Quel lieve ronzio freddo

Gli raspava i nervi come un pettine. Si costrinse a guardare altrove. La soglia della stanza

Gli si apriva davanti nera come un buco di serratura.

La mente correva avanti coi sussulti di un proiettore di diapositive scadente. Vide la soglia

La casa la notte il mondo

E in qualche punto dall’altra parte del mondo Eracle ridere bere entrare

In una macchina e il corpo intero

Di Gerione tracciò la curva d’un urlo – puntato verso

Il costume

Tutto umano

Dell’amore sbagliato.

Titolo: Autobiografia del Rosso

Autore: Anne Carson

Traduttore: Sergio Claudio Perroni

Editore: La nave di Teseo

Anno: 2020

Pagine: 202

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Sinestesia: Economia dell’imperduto

Una vela bianca foriera di buone notizie. È così per Tristano nel mito cavalleresco, che penserà al peggio per Isotta se, invece, avvistesse una vela nera. È così nel mito di Teseo se l’eroe avrà sconfitto il Minotauro, altrimenti una vela rossa annuncerà la tragedia. Inizia così l’indagine di Anne Carson in Economia dell’imperduto (traduzione di Patrizio Ceccagnoli, Utopia Editore, 2020), il topos della vela sbagliata fa dialogare due autori molto lontani tra loro: Simonide di Ceo vissuto nel V secolo a.C. e Paul Celan, poeta romeno di origine ebraica. Il saggio si muove continuamente sul filo della digressione storica per rispondere ad alcune domande: come si stabilisce il valore delle parole e come si risolve lo scarto tra l’economia delle parole e l’investimento del poeta? Cosa resta davvero delle parole scritte?

Entrambi i protagonisti stazionano nell’intersezione del cambiamento in atto e nella posizione emarginata di chi mette in dubbio un ordine nuovo o prestabilito. Simonide, per esempio, ha la fama di essere uno spilorcio, un inguaribile avaro di risorse, quando scopriremo che la sua è solo una sperimentazione scettica e premonitrice del capitale: egli vive la transizione dal baratto al denaro che determina un vero e proprio mutamento sociale e culturale. Il valore personale degli oggetti, lo spirito della xenìa, la disciplina greca del dono e dell’ospitalità, assumono connotati spaziotemporali finiti e abbracciano un valore che predeterminerà i rapporti umani in quella che Marx, altro tacito aiutante della ricostruzione di Anne Carson, chiamerà alienazione. La vanificazione del dono è affiancata dalla sparizione di quello scambio inconscio che si attivava tra padrone di casa e ospite, il cui valore era custodito reciprocamente.

Un dono non è una parte della vita interiore del donatore, sottratta e persa nello scambio, ma piuttosto un’estensione dell’interiorità del donatore, sia in termini spaziali che temporali nell’interiorità del destinatario. Il denaro nega la possibilità di una simile estensione, rompe quella continuità e imprigiona gli oggetti nei loro confini.

Demandare tutto alla moneta sembra trascinare nel mutamento anche il mondo delle parole. Saranno chiari i ruoli di autore e committente, la richiesta di una ricompensa da parte di Simonide s’inasprirà verso i ricchi signori, ma la perdita del dono e la vittoria del compenso non riesce a scalfire una poesia che sfugge a ogni logica di quantificazione. L’ambiguità delle parole – il loro travestirsi nel medesimo segno grafico – conserva l’elusione e il simbolismo della comunicazione umana. Così se la concretezza materiale è funzionale al commercio, l’economia del linguaggio è l’unica a interpretare il trasporto amoroso, a dare voce all’ignoto, al visibile e all’invisibile, al dolore, alla morte.

Molti secoli dopo Paul Celan dovrà operare una nuova, personale, contraddizione: adottare la lingua straniera di chi aveva internato i genitori in un campo di concentramento in Ucraina. «La lingua rimase imperduta. Ma dovette passare attraverso la perdita delle proprie risposte, attraverso terrificanti afasie», così Celan mette mano al vuoto fino a plasmarlo per reinventare la lingua dell’oppressione. Il suo compito è operare all’inverso: ricostruire l’incomunicabilità dell’invisibile, senza snaturarlo, guardandolo dalla prospettiva di chi ci si è trovato molto vicino e rischiava di esserne inghiottito. Solo con la disciplina della speranza e la visita alla disperazione il tempo smette di essere un nemico per estendersi oltre le paure umane. Proprio qui troviamo il valore della poesia: stazionare nel vuoto per ravvivare la memoria e commemorare quella che altrimenti sarebbe solo mortalità.

Economia dell’imperduto fa sembrare molto vicine epoche lontanissime grazie a una trattazione saggistica rigorosa, l’analisi del testo, la citazione equilibrata, portandoci in un percorso metamorfico che dalle singole parole ci indica il valore aggiunto della poesia.

 

Economia_dell'imperduto-Anne Carson

Titolo: Economia dell’imperduto

Autore: Anne Carson

Traduttore: Patrizio Ceccagnoli

Editore: Utopia Editore

Anno: 2020

Pagine: 192

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